Il 7 aprile di Palombarini: tra Calogero, Sisde e il grande non detto

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

E’ curioso, ma forse nemmeno troppo, che sia il libro scritto da un magistrato, Giovanni Palombarini, a mettere ordine nella storia del 7 aprile. Dopo tanta storiografia improvvisata – compreso il tentativo del sottoscritto, che dedicò al tema la propria tesi di laurea, la prima discussa all’Università di Padova su questo tabù irrisolto della storia cittadina – almeno qualche punto fermo, utile a rileggere i tanti libri usciti dopo il trentennale di quel 7 aprile 1979. Una data che si è cristallizzata, che ha segnato la storia di Padova e pareva, in un primo momento, dovesse segnare anche quella d’Italia. A Padova, nella Facoltà di Scienze Politiche, raccontavano, si nascondeva il cervello del terrorismo italiano. Non era così, anche se tanti lo credono ancora. Forse è solo uno dei tanti fenomeni di strabismo che affliggono una città che troppo spesso si è vista e si vede capitale, quando in realtà, a guardar bene sotto il tappeto, rimane solo piuttosto un’irriducibile incompiuta incapace di fare i conti con il proprio passato.

“Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore”, di Giovanni Palombarini (edizioni Il Poligrafo), è un libro “sbilenco”. Mi spiego: sin dal titolo, Palombarini sceglia la difficile via di un libro in terza persona. E’ in un certo senso lo storico Palombarini che riguarda, oggettivandoli più che può, i fatti tumultuosi di quegli anni. Una scelta stilistica importante, non priva di conseguenze, che segna una svolta per chi voglia veramente iniziare a studiare gli anni Settanta: il passaggio dalla memorialistica dell’io alla ricostruzione dei fatti. Sui ricordi si può stare a discutere, dai fatti – prima o poi – bisogna iniziare a trarre conclusioni.

In questo post proverò a fare il mio mestiere, che è quello del giornalista, e ad evidenziare le notizie contenute nel libro, gli elementi di novità e quelli importanti per caratterizzare la ricostruzione di Palombarini. Al termine qualche semplice considerazione meditata negli anni.

Il 7 aprile in breve

Il 7 aprile in breve in realtà non esiste, perché da quella data prendono i nomi un rivolo di inchieste anche molto diverse tra loro. All’alba di quel sabato un blitz di centinaia di agenti portò in carcere il professor Antonio Negri insieme ad altri colleghi e tecnici della facoltà di Scienze Politiche con l’accusa per un gruppo di imputati di essere “i dirigenti e gli organizzatori di un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare e dotazioni di armi, munizioni ed esplosivi al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e di mutare violentemente la Costituzione (art. 306 del codice penale)” e per un altro gruppo – unitamente al primo – “per aver organizzato e diretto un’associazione denominata Potere Operaio e altre analoghe associazioni variamente denominate ma riferibili alla cosiddetta Autonomia operaia organizzata, diretta a sovvertire violentemente gli ordinamenti costituzionali dello Stato mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica della cosiddetta illegalità di massa e di varie forme di violenza e di lotta armata”. A queste seguirono le accuse per Negri e il giornalista Giuseppe Nicotri* l’accusa di essere i telefonisti del caso Moro. Negri finirà il suo lungo iter processuale con una condanna a 12 anni (ma per nessuna di queste accuse, quella più grave riguarda l’organizzazione della rapina di Argelato in cui venne ucciso il brigadiere Lombardini), Nicotri verrà prosciolto così come poi verrà assolto buona parte del nucleo storico degli arrestati. Decine di persone vennero invece condannate per gli atti specifici di violenza che sparsero a Padova violenza e terrore nella seconda metà degli anni Settanta tra notti dei fuochi, pestaggi e gambizzazioni.

Protagonista dell’accusa – che ipotizzava una regia unica tra Autonomia e Brigate Rosse, con sede a Padova, nella sede di scienze politiche – l’allora pubblico ministero Pietro Calogero, stimato magistrato già diventato noto per aver scoperto la pista nera di piazza Fontana. A fare da contraltare a Calogero nella simbolica barricata giudiziaria, il giudice istruttore Giovanni Palombarini colui che doveva in qualche modo bilanciare gli atti del pubblico ministero verificandone le prove. Tra i due com’è noto, una profonda divisione di vedute sulla realtà storica del movimento e, soprattutto, una profonda diversità di valutazione sulla possibilità di utilizzare i documenti (volantini, riviste articoli) come elementi di prova.

1977, l’impronta di Calogero

Come si sa, il nucleo storico di Scienze politiche poi finito in carcere nel blitz del 1979, era già finito nel mirino del pubblico ministero Calogero due anni prima. Ricorda Palombarini: “Nessun fatto specifico veniva ipotizzato a loro carico. Il pubblico ministero aveva chiesto il loro proscioglimento[…] E tuttavia nel contempo con una strana definizione più polemica che descrittiva, affermava che l’Autonomia era un movimento reazionario costituito da emarginati della classe borghese, la cui ideologia altro non era che un “nuovo fascismo”. Nel 1979 “nel primo gruppo dei nove imputati veniva individuato il nucleo dirigente di tutta la lotta armata per come si era sviluppata in Italia nel corso del decennio”. “In realtà proprio le imputazioni inizialmente più gravi, quelle che più colpivano l’immaginazione erano destinate a modificarsi o a cadere ben presto”.

Un rapporto del Sisde su Palombarini

Si è tanto parlato di ostacoli all’inchiesta di Calogero, di strane proposte di collaborazione – interessate e rifiutate – da parte dei servizi segreti. Palombarini ricorda però un fatto che getta altra luce su quegli anni. Ad di là dell’ostilità palese della stampa di partito – dell’Unità e di Paese Sera –, anche un particolare inedito riemerge dai ricordi del magistrato. “Quando il pubblico ministero (ovvero Calogero, ndr) trasmise al giudice istruttore un fascicolo di documenti che potevano interessare le indagini, tra le carte Palombarini trovò una busta indirizzata a Pietro Calogero dal procuratore generale di Catanzaro nella quale, con una breve lettera di accompagnamento, era contenuto un rapporto del Sisde sullo stesso Palombarini”. Rapporto che, senza polemiche, Palombarini rimandò a Calogero senza chiedere spiegazioni. Chi chiese quel rapporto al Sisde? Perché? Cosa conteneva? Si volevano cercare appigli per dimostrare una supposta vicinanza del giudice istruttore al mondo dell’autonomia come denunciavano già alcuni iscritti del partito in città?

Il meccanismo infernale

Il libro di Palombarini ha l’enorme pregio di far capire esattamente il meccanismo infernale messosi in moto in quegli anni. Calogero arrestava, Palombarini liberava perché riteneva non sufficienti le prove, il procuratore ricorreva, la sezione istruttoria della corte d’appello riarrestava, il giudice istruttore proscioglieva; Calogero ricorreva…Ecco perché Guido Bianchini, Alisa Del Re e altrei scelsero la via della Francia fino alla definitiva assoluzione: la certezza di tornare in carcere comunque e sempre un meccanismo di ricorsi che garantiva solo l’accusa, molto poco la difesa.

L’Autonomia operaia organizzata non esiste

E qui sta il punto. Alla base dell’impianto accusatorio di Calogero, e non parlo volutamente di teorema, ci sono due considerazioni: il finto scioglimento di Potere Operaio nel 1972 e l’esistenza di una Autonomia Operaia Organizzata che sotto diverse forme e sigle abbia operato per l’insurrezione attraverso il partito armato. Sul punto la posizione di Palombarini e Fabiani (l’altro giudice istruttore) è chiara: “Univoche risultanze processuali dimostravano sia l’inesistenza di un vincolo di natura associativa fra organismi autonomi e Br, sia la profonda differenza fra la linea strategica e l’iniziativa concreta espressa dai primi e quelle dell’organizzazione clandestina. Risultava inoltre provata la dissoluzione di ogni precedente organizzazione per quanto riguardava Potere Operaio, in termini tali per cui appariva impossibile parlare di un coinvolgimento del gruppo in una più ampia struttura associativa ricomprendente le Brigate rosse”. “Inoltre non era individuabile, neppure nel periodo compreso tra il 1976 e gli ultimi avvenimenti presi in considerazione nell’inchiesta, un’unica organizzazione denominata Autonomia operaia organizzata”.

Le convinzioni di Palombarini dovettero sembrare fondate anche ai giudici se nel 1986, insieme a diverse decine di condanne per fatti specifici vide “gli imputati storici del 7 aprile a giudizio per banda armata tutti assolti”. “Questa decisione per l’opinione pubblica abituata da anni ad avere un’informazione in tutt’altra direzione, fu clamorosa. La parabola delle accuse iniziava a scendere”. “Al di là delle pronunce di assoluzione furono di particolare interesse, sotto il profilo tecnico-giuridico, due aspetti. Da un lato fu esclusa, per gli imputati inizialmente colpiti dagli ordini di cattura del 7 aprile, ogni responsabilità per i reati – in particolare la detenzione di armi – commessi da altre persone, considerate dall’accusa semplici accusatori. Dall’altro, una parte della motivazione, affrontava la questione della rilevanza probatoria di scritti e documenti”. Vivaddio, la responsabilità è personale e per dimostrare un reato servono le prove, non i volantini.

Riletture parziali

Palombarini, che rivendica un rapporto di stima per Calogero pur nella diversa visione della legge, afferma più volte di non credere a una regia del Pci dietro all’inchiesta.

Piuttosto Palombarini si sofferma sulla recente produzione storiografica. In particolare sul libro del deputato Pd Alessandro Naccarato “Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a Padova” (Cleup). “La pubblicazione è di notevole efficacia, in quanto in 330 pagine dense di nomi e avvenimenti riporta, con i commenti dell’autore, la sentenza del tribunale di Padova del luglio 1980 nel giudizio “direttissimo”, quella della Corte d’Assise di Padova e quelle delle Corti d’assise di Roma (peraltro soffermandosi brevemente sulla sentenza d’appello, senza citare le pur significative e numerose assoluzioni e le lunghe carcerazioni preventive in qualche caso subite da chi venne assolto). Comunque nel complesso, come il libro ricorda, furono irrogate diverse condanne. Ma, appunto, queste non hanno riguardato il “partito armato” come era stato originariamente pensato né i tecnici e i docenti universitari inizialmente incriminati”. Anche “Terrorismo Rosso”, che vede Calogero intervistato da Silvia Giralucci – osserva Palombarini – “non si è soffermato più di tanto sulle assoluzioni e ha completamente ignorato il tema della carcerazione preventiva”.

E’ questo il tema che più sta a cuore a Palombarini. “Nel succedersi di innumerevoli provvedimenti di carcerazione e scarcerazione – conclude il magistrato – è avvenuto che alla fine, dopo anni, accuse gravissime si siano dissolte in numerose sentenze di assoluzione. E’ questo un dato oggettivo che molti commentatori hanno preferito non prendere in considerazione […]. L’impostazione del pubblico ministero ha goduto a lungo di forza interna, nell’ideologia della magistratura del tempo prima ancora che nel sistema delle impugnazioni, e sostegni esterni, anche di un partito politico, affidati a strumenti di informazione spesso partecipi di quella impostazione. Contro questa si sono mossi i giudici istruttori padovani, subendo, fino alle conclusive sentenze delle Corti, molte critiche e molti insuccessi. E’ ipotizzabile che si possa sviluppare una riflessione su questo dato, che nella sua drammatica oggettività è emerso dalla storia del processo 7 aprile”?

7 aprile: ripartiamo da qui

Bianchini98Ho iniziato ad interessarmi del caso 7 aprile nell’agosto del 1998 alla morte di Guido Bianchini. L’avevo conosciuto a 18 anni entrando in Amnesty International, non mi aveva mai parlato dell’inchiesta che l’aveva visto coinvolto. Non gliene fregava niente: a Guido piaceva ragionare del presente e del futuro. Così come si era occupato della condizione operaia negli anni Settanta era più interessato all’Africa, all’immigrazione, al fenomeno leghista. Non ho approfondito – non ero maturo abbastanza – ma sono sicuro che saremmo stati in disaccordo parecchio. Per la tesi di laurea mi venne naturale proporre l’argomento 7 aprile a Gianni Riccamboni: percepivo un grande tabù, della durata ventennale, nella storia della mia città, mi illudevo soprattutto che una discussione si potesse riaprire – su basi nuove, oggettive – su quegli anni. Voleva essere il contributo disinteressato di una persona che nel ’79 aveva due anni, che non aveva alcuna provenienza ideologica, ma si era incaponito, da studioso della comunicazione, a capire cosa poteva essere successo alla memoria collettiva di una città, come si fosse potuto creare, e se si potesse misurare, quell’abisso tra fatti e narrazione. Plot narrativi, meccanismi sociologici e tanta approssimazione. Nella mia tesi di laurea c’è tutto questo, oltre alla sorpresa – ingenua e supponente – di tanta discrepanza. Negli anni a seguire – già dalla discussione della tesi e dalla sua diffusione in creative commons online (si trovano in rete tante letture parziali che non mi appartengono) – ma soprattutto in occasione del trentennale del 7 aprile mi son reso conto che Padova è ancora una città di reduci sulle loro posizioni. Da entrambe le parti: quelli che “il 7 aprile è un regolamento di conti a sinistra ordito dal Pci”; quelli che il “partito armato esisteva eccome e le sentenze di assoluzione servivano solo a voltar pagina”. Rendite di posizione troppo comode da abbandonare: sul 7 aprile a Padova si sono costruite carriere di governo e di disobbedienza. Negli anni mi si è consolidata la convinzione – non suffragata da prove scientifiche – che il 7 aprile sia in realtà un mito fondante della Padova che ancor oggi viviamo: dei suoi equilibri politici e della legittimazione o meno di quel che è ammesso nel discorso pubblico. Come dice giustamente Mario Isnenghi nella prefazione, “si tratta di una lotta politica tra comunisti fuori del PCI e del PCI”. Sostituendo con Pd, o centrosinistra, le cose non cambiano.

E torniamo al libro di Palombarini. Recensendolo sul Manifesto, Sergio Bologna, con qualche ragione scrive:

Il libro di Palom­ba­rini mette a nudo la bar­ba­rie della deten­zione pre­ven­tiva. Fa onore ad uno che fa il suo mestiere aver rico­no­sciuto que­sti com­por­ta­menti inci­vili della giu­sti­zia ita­liana, ma il suo libro non affronta il vero pro­blema di quella vicenda, la vera ver­go­gna, che era l’impianto accu­sa­to­rio, l’impianto chia­mato «il teo­rema Calo­gero». Va beh, dirà qual­cuno, il pro­blema è stato supe­rato, le stesse sen­tenze dei pro­cessi hanno demo­lito quel teo­rema. Ed è qui che non ci capiamo. Quell’impianto accu­sa­to­rio non è rima­sto un fatto giu­di­zia­rio cir­co­scritto alla vicenda pro­ces­suale, è diven­tato nel corso degli anni un’ipotesi sto­rio­gra­fica, uno schema logico sul quale si con­ti­nua, oggi — oggi non ieri — a costruire memo­ria e nar­ra­zione. Si è tra­sfor­mato, come dire, in una sostanza tos­sica a lento rila­scio che inquina dei ter­ri­tori, sia pur peri­fe­rici, dell’indagine sto­rica.

Giusto. E questo è un problema italiano, non solo di Padova. Ma poteva Palombarini fare qualcosa di diverso da quello che ha fatto? Per ruolo, appartenza alle istituzioni, assolutamente no. Palombarini ha fatto un passo – quello di fornirci uno strumento disintossicato – che è la premessa fondamentale ma non sufficiente per ricostruire una nuova storia di quegli anni. Lo faremo? Non sono ottimista, sono sincero. E peraltro – purtroppo e per fortuna – abbiamo anche altri problemi. Ma se c’è ancora una chance, questa è adesso: con il libro di Palombarini sotto mano e il centrosinistra all’opposizione della città.

Good night and good luck

 

Luca Barbieri

Ti potrebbe interessare