Aerofloting back and forth - viaggio in treno (III parte)

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Tornare in Italia vuol dire anche tornare a fare i conti con le F.S.
Per me, è ogni volta un’avventura e un mare di sorprese. E non sono ironica. Sorprese meno belle (i soliti ritardi e conseguenti coincidenze perse, le obliteratrici scassate, l’aria condizionata che non va, le formiche come uniche compagne di carrozza, ecc.) ma anche belle, perché, per me che in Italia sto poco, ciò che vedo a bordo dei vari treni è un po’ uno specchio del progressivo cambiamento della popolazione e della societa’ italiana.

Mi ricordo la prima volta che rientrai dalla Cina e dovetti andare in treno a Milano. Era uno di quei vecchi Intercity divisi in scompartimenti da 6. In diverse tratte mi scoprii unica passeggera italiana tra extracomunitari. Fino a pochi anni prima, lo spaccato che solitamente mi trovavo davanti era sostanzialmente ribaltato.

In quest’ultima occasione, malgrado il soggiorno fugace, mi sono sciroppata diversi viaggi in treno tra Veneto, Toscana e Lazio, con treni di ogni “categoria”, dal comunissimo locale alla dilagante Alta Velocità. Ho incontrato turisti, business people, mendicanti e tanta ‘gente comune’, di vecchio e nuovo stampo.  A Firenze, ho condiviso una carrozza con padre e figlia magrebini: lui le parlava in arabo, lei gli rispondeva in toscano impeccabile. A Mestre, due badanti sudamericane si lamentavano, sfiduciate, del ritardo del treno, della coincidenza persa e della mancanza di annunci. Un cinese mi ha chiesto se il treno fermasse nella stazione XY. “Tra due fermate”, gli ho risposto. Lui ha ripetuto la frase tra se’ e se’ un paio di volte, senza troppo capirla. Gliela traduco in cinese e lui si volta stupito: “Ma tu parli cinese?”. “Un po’”, gli rispondo. “Blava, blava, palli cinese!”, ribatte euforico (scena che ho trovato insolita in Italia, dove il cinese mi sembra sempre molto chiuso e sulle sue), scandendo le parole esattamente come negli stereotipi piu’ tradizionali sui cinesi. Davanti a me, un’adolescente (italiana) prorompe in eccitazione tra le sue amichette perchè  ha scoperto che puo’ chattare in Facebook dal suo cellulare. Dietro di me, un altro adolescente, anche lui al telefonino, racconta terrorizzato alla sua fidanzatina di come abbia paura di tornare a casa e di incontrare il padre, da cui teme di prenderle di santa ragione. Rieccole, le nuove leve italiane, per cui  confesso di provare una certa pena, living as they seem to be  in un mondo piu’ virtuale che reale (Facebook, chat, viedogiochi, cellulare onnipresente) e con alle spalle famiglie sgangherate (genitori separati o divorziati, perennemente al lavoro o di corsa).

L’altro gruppo che osservo con altrettanta curiosità, e anche con una certa empatia, sono gli stranieri che risiedono nel nostro Paese. Non quelli che stanno a bighellonare alle slot machine del bar o a ciondolare per i binari della stazione (di questi continuo a chiedermi come facciano ad avere un regolare permesso di soggiorno in Italia) ma quelli che, a fatica, stanno cercando di costruirsi una vita nuova, supposedly – ma non so fino a che punto – migliore di quella che si sono lasciati alle spalle dopo mille difficoltà. Seppur in condizioni diametralmente diverse, dopo tutto sono anch’io, come loro, un’”emigrata lontana da casa”. Non solo la loro vita in Italia non e’ comparabile alla mia in Cina ma già per noi italiani “sbarcare il lunario” di questi tempi e’ una gran fatica che non riesco a non pensare a quanto debba essere duro per loro riuscire a districarsi nel modus operandi italiano e a reinventarsi una vita decente. Spesso mi sembrano così allo sbaraglio e abbandonati a se stessi che mi chiedo quante disillusioni, e magari rimpianti, abbiano trovato ad accoglierli laggiu’, nel mondo “dove si sta bene”.

Davanti a tutti gli episodi di disservizio pubblico (treni in ritardo, distributori distrutti, macchinette fuori uso, telefoni pubblici che squillano a vuoto), alle citta’ che mi paiono sempre piu’ degradate (mi s’e’ spezzato il cuore tornando a Venezia e trovandola cosi’ tutta imbrattata), a questa societa’ tanto in cambiamento (v. gli stranieri, i giovani) quanto ancora in cerca di una sua nuova identità, ho spessissimo la sensazione di trovarmi in Italia (e non in Cina) nel Paese in via di sviluppo. E’ una sensazione, appunto, non una valutazione razionale. Quando interviene la valutazione razionale, allora mi correggo a considerare come, oramai, l’Italia sia per molti versi piu’ propriamente un Paese “in via di sotto-sviluppo” che uno “in via di sviluppo”. Il degrado civico, questa incuria generale, una società che mi pare vivere all’oscuro del fatto che ci sia tutto un altro mondo oltre i suoi confini, un mondo dove le cose move on, mentre in Italia a me sembra che oramai no one cares, not anymore e si sia preferito abbandonarsi, con rassegnazione, ad una lenta, progressiva decadenza.

E’ mezzanotte e mezza quando finalmente arrivo a Shanghai. Al controllo passaporti, sospeso in alto a metà tra gli sportelli per cinesi e quelli per stranieri, noto un nuovo cartello: 欢迎您回家. Ovvero: “Bentornato a casa”.
Già, feels like home.

Silvia Sartori

(Puntate precedenti: 1, 2)

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