Amsterdam, dall'architettura moderna al pizza taxi

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“Stamattina ti racconterò la storia della città da una prospettiva diversa”. Marc si sveglia di buon ora, indossa il suo impermeabile da marinaio, e con quella faccia alla Corto Maltese mi invita ad andare in bici con lui, con un tempo poco incoraggiante. Effettivamente, quella mattina mi venne raccontata la città attraverso le sue pietre. Per Marc la facciata di un palazzo, una finestra, la decorazione di una ringhiera sono elementi che parlano della sua storia.

“Un’epoca che non tornerà più, chi vuoi che si metta a perdere tempo con questi fregi e con questi ornamenti, era l’epoca dell’architettura sociale, quando costruire case significava far felice una persona e la sua famiglia, non semplicemente alloggiarla da qualche parte. La buona architettura rese la gente migliore. La Scuola di Amsterdam fu un movimento sovversivo, negli schemi e negli intenti, e la sua estetica rappresenta ancora oggi il lascito di una visione più grande.” Ci addentriamo nel quartiere che delimitava la fine della città prima del piano di espansione della metà degli anni ‘50, e mi fa osservare il cambiamento di stili e come negli anni successivi l’architettura avesse ripiegato su tecniche più convenzionali, che spaventavano meno i governi conservatori che si sono succeduti.
La sua storia quadra con quella che mi ha raccontato Onno. L’arte è il punto focale di questa sto-ria a margine della Storia, a cavallo tra la rivoluzione sociale e l’involuzione consumistica, ed è rappresentata perfettamente dalla loro comunione nella piccola barca ormeggiata laggiù in fondo all’Amstel. I loro studi sono separati, quello di Marc stracolmo di modellini di aerei, plastici in cera, strumenti per il disegno tecnico. Onno si rifugia tra spartiti e strumenti, una babilonia musicale che racconta anni di studio e felicità. Il nostro giro stava per finire.

Marc mi racconta le cose e traspare dalle sue parole, anche se è costretto a tramutarle in un inglese che è ora più sicuro di sé, quanto le abbia ripetute tra sé e sé più volte durante i suoi giri solitari, mentre Onno è in tournee. Mi sento un privilegiato ad ascoltarlo, che abbia deciso di condividere la sua conoscenza con me. Mi fa notare la scritta “Eigen Haard”. È un po’ come dire “la nostra casa”, mi dice mentre ci salutiamo con la promessa di rivederci per cena, sperando che Onno si possa unire a noi e che a causa del tempo gli annullino il concerto. Mi promette una vera cena olandese, preparata con elementi semplici, secondo la tradizione. Io ricambierò con una bottiglia di vino e un dolce. Per un attimo, sotto la pioggia battente di quella grigia domenica mattina, mi venne in mente che il pensiero di dover tornare per un’ultima notte in quella barca e dormire un sonno dimentico della città, cullato dal fruscio delle foglie degli alberi che accompagnavano il fiume verso sud, mi rendeva felice.

Pizza taxi

Se uno ci pensa, bucare la ruota della bicicletta una domenica pomeriggio ad Amsterdam non è una grossa sfortuna, soprattutto se si considera che dopo pochi minuti un arzillo vecchietto ti aiuta a ripararla. La vera sfortuna è bucare l’altra ruota dopo pochi minuti. In quel momento inveisco contro Victor, se avesse inventato una app per i ciclisti in quel momento avrei saputo dove andare, avrei saputo se qualcuno poteva salvare la mia giornata. Mi rendo conto di quanto ridicolo fosse quel mio pensiero, e anche che in quel modo non avrei parlato, avrei fissato lo schermo del mio telefono e probabilmente non sarei passato per caso fuori la Heineken Brewery e non avrei visto una calca di Italiani vestiti in modo uguale che sgomitavano per entrare. Soprattutto, non avrei certo trovato il Pizza Taxi, di cui i ragazzi mi avevano parlato a cena la sera prima, uno dei pochi posti davvero italiani in città e non certo uno dei soliti marchi che scimmiottavano cultura e tradizioni certamente troppo lontani da loro. Decido di interpretare la duplice bucatura come un incoraggiamento del destino ad entrare e a conoscerli, questi emigranti italiani.

Dopo poche battute, Sebastiano ride con gli occhi quando mi dice: ma voi siete della Campania! Gli racconto delle mie disavventure e mangio la mia prima pizza in sei mesi. Mi dà da bere una Peroni, quella marrone, non quella di importazione. Una Peroni nella patria dell’Heineken ci sta tutta, penso mentre trattengo un rutto di soddisfazione. Ma non è che fate anche la pizza fritta, chiedo senza troppe speranze. E qui quel grosso omone di Siracusa, in Olanda da trent’anni, si scioglie in un racconto appassionato. “Pizza fritta? Hai bisogno del pozzetto per lo scarico del grasso a parte, hai bisogno del permesso del comune, quello dei vigili del fuoco e, cosa più importante, devi tenere la ciorta! Quando siamo arrivati qua non c’erano le facilities e allora decidemmo che ci saremmo limitati alle pizze normali, dopotutto un forno a legna è già un grande lusso, da Napoli in su. Pensa che devi avere un diploma della conoscenza delle regole igieniche della ristorazione olandese, l’esame puoi farlo anche qui, in italiano; devi dimostrare che il tuo capitale iniziale è pulito, anche e soprattutto se lo porti dall’estero, come hai ereditato quei soldi, nel caso, come li hai guadagnati. La matrice del biglietto vincente della lotteria, tutto.”

Ma perché tutte questa domande, volete fare qualcosa qua? No perché noi, dopo trent’anni, vorremmo vendere, che dobbiamo fare ancora qua in Europa, ci hanno spremuto fino all’osso e ora non ci resta niente. Un periodo c’erano gli slavi che chiedevano il pizzo ma tutti noi ristoratori ci eravamo associati e li denunciammo, è quando si ha paura che la gente tace, ricordalo, qui nessuno ha paura del cugino del cognato di quello là. Prima della grande guerra questo era un paese feudale, i diritti delle donne vennero molto dopo, il consumismo è arrivato tardi, e nonostante la monarchia qui il progressismo ha fatto conquiste storiche e in anticipo rispetto alle tante velocità della integrazione europea.”

Sazio e soddisfatto ritorno alla mia bici, stravolgendo tutto l’itinerario che mi ero prefissato, alla ricerca di altre casualità.

Alessandro Vignale

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