Arigatoo gozaimasu - Un inchino al Sol Levante

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Purtroppo quello che segue è l’ultimo post che Susi Zatti scrive dal Giappone per A nord est di che…Voglio ringraziare Susi per tutto l’entusiasmo e le informazioni che ci ha trasmesso in questi sei mesi, sicuro che presto tornerà a condividere con noi le sue prossime avventure. LuB

In Giappone, un bell’inchino è spesso paragonato ad una pianta di riso matura che ondeggia al vento. L’inchino è senza dubbio il gesto più comune dei giapponesi: le presentazioni, i saluti, i ringraziamenti, sono sempre accompagnati da un inchino. Nel momento in cui lo si fa, la posizione e il movimento riflettono sincerità, rispetto e maturità. Per contro, un inchino mal fatto è indice di maleducazione e di immaturità.*

Questo semplice quanto celebre gesto è l’emblema dell’educazione e del carattere dei giapponesi, di una cultura del rispetto e della cortesia verso gli altri. Chiunque passi qualche giorno in Giappone viene subito contagiato da questo spontaneo inchinarsi che nella vita quotidiana, in qualsiasi rapporto fra le persone, viene ripetuto continuamente.

Sono tornata in Italia da una settimana e qualche volta ancora mi risulta spontaneo chinare leggermente il busto o il capo quando ringrazio o saluto le persone. Certo, ciò suscita un sacco di risate, ma mi ha fatto riflettere sul fatto che una delle cose più preziose che ho portato con me, dopo sei mesi di vita fra i giapponesi, è proprio questo profondo senso di rispetto e cortesia che sta alla base di qualsiasi loro relazione interpersonale.

Rispetto, cortesia e gentilezza nel Sol Levante sono la regola, non un’eccezione, non un favore. Qualsiasi persona vi troviate di fronte, qualunque sia la sua età, si tratti di un vecchio amico o di un perfetto sconosciuto, si inchinerà per presentarsi, salutarvi, ringraziarvi, scusarsi, anche se non gli siete simpatici, anche se ha una brutta giornata. Per lo stesso motivo, nessuno vi negherà mai un sorriso, un cordiale “ohaioo gozaimasu” (buongiorno), “konniciwa” (salve), “arigatoo gozaimasu” (grazie). Ogni qualvolta entrerete in un negozio, in un ristorante, in posta, in banca, verrete travolti da una serie di “irasshaimasè” (benvenuto).

Non so se si tratti di un caso, ma personalmente posso dire che in sei mesi, non ho mai visto un giapponese arrabbiarsi, imprecare o semplicemente alzare la voce o uscire sbattendo la porta. Non ho mai visto due persone litigare o discutere animatamente. Nessuno parlare a voce alta per farsi notare. Cose che qui da noi, in qualsiasi ambiente lavorativo, spesso sono all’ordine del giorno. Quanto tempo e quante energie spendiamo a volte nell’arrabbiarci, nel discutere, ma soprattutto a lamentarci di ciò che non va bene, di ciò che sarebbe stato meglio fare diversamente, oppure a chiederci se una cosa sia giusta o meno prima di farla (o se non spetti forse a qualcun altro farla, questa volta).

Uno degli ultimi giorni prima di partire mi è capitato di parlarne ad un amico con cui lavoravo. Gli ho chiesto come fosse possibile che io non abbia mai visto uno di loro arrabbiarsi. Ridendo mi ha risposto, come sempre in modo semplice, puntuale e conciso, senza tanti giri di parole “noi crediamo che non ci sia bisogno di arrabbiarsi o lamentarsi, perché non serve a molto”.

Credo che questo spiega in parte come i giapponesi siano in grado di superare un terremoto come quello dell’11 marzo scorso, o come, più semplicemente, convivano ogni anno con una serie di tifoni che, come Talas, portano notevoli danni ad abitazioni e infrastrutture oltre che numerose vittime, andando avanti senza batter ciglio, senza quasi accorgersene.

Sei mesi in Giappone, sei mesi vivendo e lavorando in una comunità in cui ero sicuramente l’unica italiana e spesso l’unica persona “occidentale”, forse non sono stati sempre facili. Ambientarsi ed integrarsi non è stato di certo semplice considerando la loro indole timida ed introversa, la loro difficoltà nel comunicare in inglese e i ritmi lavorativi sostenuti. Tuttavia ho imparato moltissimo da persone che ritengo eccezionali, sempre gentili, educate, rispettose, ma anche fieri del loro Paese, della loro cultura e delle loro tradizioni.

Molti di loro mi hanno ringraziato, per aver scelto di vivere questa esperienza nel loro paese, nonostante le difficoltà linguistiche. Mi hanno ringraziato per essere andata in Giappone nonostante gli allarmismi generati in seguito al sisma dell’11 marzo e la conseguente emergenza di Fukushima, che scoraggiano tuttora molti stranieri a visitare il paese, sebbene non vi sia assolutamente alcun rischio al di fuori delle aree più colpite. Mi hanno ringraziato per essermi sforzata ad imparare qualche parola di giapponese. Mi hanno ringraziato anche per aver voluto visitare Hiroshima prima di andare a Tokyo o Kyoto.

Io sarò sempre grata a loro perché torno arricchita dell’aver conosciuto, almeno in parte, un Paese dove la modernità e la tecnologia all’avanguardia delle giungle di cemento convivono armoniosamente con l’atmosfera carica di antiche tradizioni dei templi e dei santuari. Ma soprattutto torno arricchita dell’aver vissuto un diverso modo di vivere e di lavorare, di un diverso modo di rapportarsi quotidianamente con gli altri.

È doveroso infine anche un immenso grazie a tutta la redazione di “A nord est di che…” per avermi dato la possibilità di condividere questa esperienza, in tutte le sue sfaccettature, e per l’opportunità di scambio, di confronto, di dialogo che rappresentano sempre il miglior modo di crescere e arricchirsi.

Susi Zatti

*Cit. da “giapponese” Lonely Planet

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