Ceausescu e il nazionalcomunismo in Romania (2): cultura e scuola al servizio del regime

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La fine del terrore stalinista a metà degli anni ’50, seguita dalla condanna dei metodi totalitari da parte dello stesso segretario sovietico Nikita Chruscev al XX Congresso del PCUS nel 1956, permise il passaggio, anche nei paesi satelliti dell’Unione Sovietica, da un sistema totalitario ad uno di apertura sia nei confronti della società che dell’ opposizione interna al partito. Addirittura, in Ungheria la corrente più critica del partito comunista azzardò riforme talmente spinte verso un sistema democratico, che si scatenò un conflitto aperto con l’Unione Sovietica che si vide obbligata a reprimere nel sangue la rivoluzione ungherese per impedire il crollo del sistema. Era chiaro che l’ elite comunista doveva cambiare il registro degli strumenti utilizzati per mantenersi al potere.

Gli oppositori del regime, quelli sopravvissuti, furono liberati. Si trattava comunque di figure di secondo piano appartenenti ai vecchi sistemi liberali. I capi dei partiti storici erano ormai morti oppure fuggiti in Occidente. Ricordo il mio vecchio professore di storia delle istituzioni politiche  medioevali romene, Serban Papacostea, erede di una folta dinastia di storici, che fu arrestato da giovane perché si trovava nella biblioteca universitaria e quindi considerato sovversivo dal regime. Fu liberato e gli fu permesso svolgere attività di ricerca, pur rimanendo sempre sotto il controllo attento della polizia segreta, la Securitate. La stessa sua sorte ebbero tanti esponenti del regime liberale interbellico.

Ma la mossa più importante del regime fu l’apertura verso le nuove generazioni dell’èlite culturale, a patto che collaborassero con il potere. In poche parole, il regime chiudeva un occhio su certe posizioni critiche espresse dalla società civile ma, in cambio, chiedeva l’ appoggio da parte degli intellettuali alla nuova linea nazionalista del partito.

Se tra i rappresentanti della generazione interbellica il regime riuscì a reclutare pochi intellettuali, anche di spicco ( vedi lo scrittore M. Sadoveanu), tra i membri della giovane generazione ebbe decisamente più successo. Il caso più emblematico è stato il poeta Adrian Paunescu.

Il regime di Ceausescu aveva deciso che i principali strumenti del potere erano diventati la cultura e l’educazione (parlo di decisioni del regime e non di Ceausescu come persona, perché considero che tali tecniche di manipolazione delle masse possono essere frutto solo di ricerche sociali che superano le capacità di una sola persona e richiedono un programma articolato seguito da specialisti nel campo delle scienze sociali).

Decisamente Adrian Paunescu, oltre che poeta di indubbio talento ( secondo me il più grande che ebbe la cultura romena; e qui mi assumo un grosso rischio di essere tacciato di essere un nostalgico del regime), era dotato di un carisma straordinario.

Negli anni ’70 diede vita al Cenacolo “Flacara” (la Fiamma) che in poco tempo diventò il più importante evento culturale di massa del periodo comunista. Praticamente Paunescu proponeva una formula partecipativa che permetteva al pubblico di essere parte attiva all’ interno di uno spettacolo,che aveva come obbiettivo dichiarato di scoprire nuovi talenti tramite l’interpretazione   di canzoni oppure poesie con forte carattere nazionalistico. In più, il Cenacolo aveva un carattere itinerante, arrivando a riempire le sale e gli stadi delle città nelle quali arrivava Paunescu. Basta guardare le riprese fatte durante gli spettacoli sostenuti per capire la forza carismatica del suo ideatore.

Possiamo affermare senza sbagliare che il Cenacolo Flacara fu la più grande azione di manipolazione delle masse al servizio del regime di Ceausescu. Con l’aiuto della televisione il Cenacolo riuscì a penetrare fortemente nella coscienza della gente e giunse ad avere una copertura nazionale. Il fatto che Paunescu, dopo aver lodato Ceausescu e le sue realizzazioni (essendo considerato il poeta di corte dai suoi oppositori, anche dopo 1989) ebbe il coraggio di sfidare il potere, criticando le decisioni del regime, la dice lunga sulla sua personalità. Anche dopo la caduta del Muro, riuscì a crearsi una carriera politica senza mai abdicare dalle sue convinzioni nazionalistiche e socialiste.

Il secondo pillastro del regime era l’educazione. Così come la cultura, anche l’educazione ebbe un forte carattere nazionalistico. I manuali di storia furono riscritti da professori che scelsero di schierarsi con il regime, esaltando la discendenza daco-romana della nazione e il suo ruolo così detto centrale nella storia europea, tutto accompagnato dal mito del popolo sempre assediato dai vicini. Le conseguenze di questo tipo di educazione furono disastrose a livello di psicologia sociale, anche perché il sistema si è perpetuato dopo ’89, perché le nuove leve del sistema di insegnamento si erano formate sotto il vecchio regime. L’apertura verso l’Europa dimostrò alla società romena che era l’unica a credere al suo ruolo speciale. Insomma, della storia millenaria dei romeni, delle sue radici nobile, del suo ruolo di argine contro i turchi e gli slavi agli europei non importava un bel niente. Il crollo di tutti questi miti costruiti dal regime creò forti sensi di frustrazione e inferiorità nel seno della società.

Teodor Amarandei

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