Da lavoratori immigrati a proprietari terrieri, il riscatto dei cinesi in Malesia

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Certi luoghi sono oasi di pace. Non è facile trovarli, bisogna andarseli a cercare. Visitando i templi cinesi di Malacca avevamo notato che tutti nel retro, dove si venerano i propri defunti, avevano affissi vecchi ritagli di giornale, risalenti a periodi diversi, che parlavano dei problemi di conservazione di Bukit China, la collina che ospita il cimitero cinese. Volevano buttarlo giù, rendendo l’area edificabile, in diverse occasioni e accampando ogni tipo di scusa. Abbiamo deciso di andare a darci un’occhiata. La collina è qualche chilometro più a nord del centro storico della città, letteralmente immersa in un bosco, rinfrescata da un vento leggerissimo, che fa tremare le foglie e volare petali rossi dagli alberi sulle pietre incise, ha la vista sul mare, è baciata dal sole. Quando ci siamo passati eravamo soli, si sarebbe detto soli sull’intera collina. C’erano le farfalle però, le zanzare (quelle sempre) e una gigantesca iguana. Un piccolo dinosauro che se ne andava a spasso lentamente e con l’aria altera, come fosse il padrone di casa. Quella sì, è un’oasi di pace.


A metà del 1400, la principessa cinese Hang Li Po, nipote del terzo imperatore della dinastia Ming, fu ordinata in sposa al sultano di Malacca, Mansur Syah. Si portò dietro un seguito di degno di un piccolo esodo, cinquecento giovani nobili e qualche centinaia di ancelle. Quella fu la prima ondata di “emigrazione” cinese a Malacca, che diede origine alle famiglie Peranakan, come vengono chiamate quelle miste sino-malesi.La seconda ondata racconta una storia tragica e risale alla metà dell’800. I cinesi fuggivano dalla guerra dell’Oppio del 1840 e i colonizzatori inglesi, dopo aver deforestato centinaia di ettari di giungla malese, avevano disperato bisogno di schiavi per le loro immense piantagioni di gomma.

I lavoratori cinesi furono “accolti” con la formula della servitù debitoria: chi non aveva i soldi per pagare il viaggio contraeva un debito (che maturava interessi con il tempo) che veniva venduto all’asta al proprietario della piantagione di turno. Lo schiavo era costretto a lavorare gratuitamente e il datore di lavoro lo costringeva a vivere in condizioni pessime, sperando che morisse prima di aver estinto il debito, per non essere poi costretto a corrispondere una somma di denaro ulteriore, una volta estinto.


Il sultano di Malacca regalò alla sua giovane sposa la collina di Bukit China perché diventasse la sua residenza (250.000 metri quadrati di terreno…). Ai piedi della collina fu costruito un pozzo che poi servì come principale risorsa d’acqua per tutta la città, si dice non ne sia mai rimasto senza, neanche nei periodi di carestia. Oggi la collina ospita oltre dodicimila tombe, alcune delle quali risalenti alla dinastia Ming, si dice sia il più grande cimitero cinese fuori dalla Cina e resta un punto di riferimento fortissimo della comunità cinese malesiana.

La stessa comunità alla quale gli inglesi hanno spalancato le porte perché servivano “lavoratori” per poi serrarle, quando iniziava a diventare troppo consistente e influente. Se nel 1835, secondo il primo censimento inglese, la comunità cinese costituiva solo l’8% della popolazione, nel 1921 era diventata il 30%. Così durante gli anni ’30 il governo iniziò a imporre restrizioni sulle migrazioni. Non servì a niente, perché nel 1947 la comunità era cresciuta di un altro 8% e, da lavoratori, i cinesi erano diventati proprietari terrieri, risparmiando e investendo in beni immobili e commerciali.


Una trentina di anni (e diversi tentativi di soffocare la comunità cinese) dopo, è arrivata la stretta sulla religione musulmana per i nativi malay: un malay è per legge musulmano di nascita e non ha diritto a convertirsi, potenzialmente ha diritto fino a quattro mogli, quindi a molti più figli. L’obiettivo doveva essere quello di far crescere la comunità malay più di quella cinese (anche questo non è servito a molto, la stragrande maggioranza dei malay ha comunque una sola moglie). Nei matrimoni misti sino-malesi, per ovvie ragioni sempre più rari, sono i cinesi a dover abbandonare per legge la propria identità culturale e a convertirsi. In compenso, crescono le unioni dei cinesi con la terza, grande, comunità che popola questo Paese: quella indiana. I loro figli, chiamati Chindians, parlano l’inglese come lingua madre e nel dibattito infinito su quale gruppo etnico rappresenti la Malesia meglio di un altro, probabilmente il primato spetta proprio a loro.

Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro

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