"Entravano in casa, puntavano e sparavano". La voce dei profughi siriani

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Famiglia di rifugiati siriani - Campo di Zaatari, Giordania, gennaio 2013.JPGZaatari. Con non troppe difficoltà e tanta fortuna riusciamo ad entrare nel campo di profughi siriani in fuga dal sanguinoso conflitto dilagato nel paese a partire da marzo 2011. Iniziamo a camminare per l’immensa tendopoli, timidi e silenziosi, osservando donne, uomini e bambini con un misto di curiosità ed emozione. E’ strano descrivere le mie sensazioni del momento. Di sicuro dentro di me c’è della gioia per aver ritrovato quel popolo così gentile e ospitale che meno di due anni prima mi aveva accolto a braccia parte nell’affascinante e magica città di Damasco.

Nello stesso tempo però mi invade un forte senso di tristezza e oppressione nel vedere la sofferenza di queste persone che vagano nel campo spaesate e senza meta. Vivendo in Palestina, il collegamento con la Nakba* palestinese è fin troppo scontato. Di sicuro anche i campi allestiti per i palestinesi nel 1948 in Libano, Siria e Giordania dovevano avere un aspetto simile. Di sicuro anche loro pensavano di poter ritornare nel loro paese dopo pochi mesi. E certamente, all’inizio anche loro dovevano essere sconvolti e traumatizzati dalle atrocità vissute.

Continuiamo a camminare tra le strade sterrate del campo e pian piano tra noi e i rifugiati siriani si instaura un dialogo, fatto di sguardi, racconti, emozioni. C’è chi ci invita nella tenda, chi ci ferma per strada, chi ci chiede aiuto, chi piangendo vuole raccontarci la sua storia.

“Abbiamo freddo. Non abbiamo coperte, le tende di notte sono gelide. Chi ci può aiutare?”

“Venite, venite nella mia tenda, mio figlio è disabile, ha bisogno di una sedia, di una carrozzina. Ora è disteso a terra, non riusciamo nemmeno a portarlo in bagno. Aiutateci.”

“Non fotografatemi, non fotografatemi. Ho parenti in Siria, voglio tornare lì. Se mi vedono, mi ammazzano.”

“Cosa volete? Che aiuto ci date? Trasmettere il nostro messaggio in Europa? L’Europa sa quello che succede, c’è già troppa informazione, ma finge di non sapere, di non vedere, di non sentire.”

“Vi dirò tutto quello che volete, risponderò a tutte le vostre domande. Tutte. Ma non fatemi foto, non chiedetemi il mio nome e quello del mio paese.”

“I bambini scappano e si nascondono perché il rumore della macchina fotografica ricorda loro quello dei soldati che sparavano. Entravano nelle case, puntavano l’arma proprio come puntate ora la macchina fotografica e poi sparavano.”

Ci fermano mentre camminiamo nel campo, ci raccontano spontaneamente le loro emozioni del momento, le loro paure, le loro speranze. Incontri, sguardi, pezzi di storie, di vita.

 

* Gli arabi chiamano Nakba – letteralmente “Il Disastro” – l’esodo di oltre 700,000 palestinesi dai territori della Palestina storica, avvenuto nel 1948 sotto la minaccia delle armi o per paura delle rappresaglie degli israeliani.

 

(racconto di Anna Clementi del 04/01/2013)

 

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