Gino Amleto Meneghetti, il buon ladro più ricercato del Brasile

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coverPer oltre mezzo secolo è stato l’italiano più ricercato del Brasile. Chi oggi, al di là dell’Atlantico, ha 50 o 60 anni ricorda nitidamente le gesta del ladro gentiluomo  cui il quotidiano “Ultima Hora” dedicò per tre mesi tutti i giorni una pagina per raccontarne la biografia. Eppure di lui, nel nostro Paese, quasi non è rimasta memoria. L’idea di scrivere un libro su Gino Amleto Meneghetti è venuta a Andrea Schiavon – giornalista padovano redattore di Tuttosport e vincitore del Bancarella Sport 2013 ­- che all’epoca era a caccia di storie di sportivi brasiliani con le radici nel Belpaese.

“Quando ho incontrato Meneghetti  nelle liste di immigrati che stavo spulciando ho lasciato perdere lo sport e mi sono innamorato della sua vicenda” spiega. In fondo anche Meneghetti faceva parte di quel milione e mezzo di emigranti italiani che sbarcò nel nuovo mondo fra il 1887 e il 1960 con l’intenzione di rifarsi una vita. Perché da Pisa Gino Amleto arrivò con una carriera già avviata di ladro professionista, divenuta nel corso degli anni quasi un’arte. Ne “Il buon ladro” (Add editore, 158 pagine, 14 euro), Schiavon traccia con rapide ed efficaci pennellate una personalità e un carattere eccezionali, un anti-eroe amato però dalla povera gente, che seguiva poche ma ferree regole: le sue vittime dovevano essere solo persone molto ricche e, se possibile, anche un po’ disoneste; ma soprattutto, non si doveva in alcun modo fare uso di violenza. Per riuscire ad arrestarlo, appena l’anno successivo al suo arrivo a San Paolo, furono mobilitati 200 poliziotti.

Alla fine Meneghetti fu condannato a 43 anni di prigione. Scarcerato nel 1947 grazie a un decreto presidenziale, ormai settantenne, Gino cerca di rimanere sulla retta via, ma la libertà dura poco. Incorreggibile, al momento dell’ultimo arresto ha più di 90 anni. “Mi ha colpito in particolare la sporporzione fra ciò che aveva fatto e quanto ha pagato, rivelatrice di quanto il potere volesse annientare l’uomo che a lungo l’aveva ridicolizzato. Questa sicuramente è stata la parte più empatica, quella in cui l’ho sentito più vicino, anche se parlavo di una persona già morta” racconta Schiavon. Ma ad affascinare l’autore – e, con lui, il lettore – è soprattutto la dignità di un uomo che nemmeno la tortura è riuscita a piegare. Un uomo capace di battezzare i propri figli Spartaco e Luis Lenin in nome della lotta per la libertà il primo, dell’uguaglianza di tutti gli uomini il secondo. “Meneghetti è uno che ha sempre agito consapevolmente e che si è assunto la responsabilità per le proprie azioni. Quando finiva in carcere cercava naturalmente poi di scappare, ma questo faceva parte del gioco” conclude Schiavon.

Silvia Fabbi

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