I libri mordono! "La lingua di Ana" e Elsa Morante

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Ecco la prefazione di Jasmina Tesanovic , dal titolo “La letteratura è contagiosa”, al nuovo libro di Elvira Mujcic “La lingua di Ana”(Infinito edizioni, pag 170, 15 euro). Della storia di Ana, adolescente moldova catapultata in Italia, ne avevamo parlato già qui. La prefazione è presa dal sito di  Infinito edizioni.
Da un po’ di tempo non leggo più i libri “veri”, cioè quelli di una volta, stampati su carta e scritti in modo tradizionale. Solo quando non posso proprio evitarlo, e allora non me ne pento mai, perché, come dice Elsa Morante, alla fine sento un’iniezione di energia che solo la letteratura può darti.
Infatti è a Elsa Morante che non smettevo di pensare leggendo La lingua di Ana: all’Isola di Arturo, il libro che ho tradotto venticinque anni fa in serbo.
La lingua di Ana è la storia della crescita dolorosa di una bambina tra­vagliata in una situazione difficile. La storia della straniera fuori dal suo contesto naturale in una società xenofoba italiana col rapporto misogino di odio-amore, punizione e ricatto che abbiamo con la madre. Vi ricordate di Arturo e della sua storia passionale con la matrigna, ragazza madre che finisce in un bacio?
Crescere e mutare è sempre un dramma, seguire le richieste e le domande del proprio corpo a volte diventa una tragedia, e non solo nell’adolescenza.
Crescere sradicati, in un altro Paese, alieno, in una lingua sconosciuta, più che problemi umani provoca problemi sovrumani, extraterrestri. E qui direi che arriva il bello, non solo il difficile. Io stessa sono cresciuta non in due, ma almeno in tre lingue, fuori dalla patria, dalla lingua materna; era più che una schizofrenia, erano vite parallele, segreti intraducibili, decisione impos­sibili. Dopo molti anni e la scelta di fare cinema, traduzioni, sono diventata una scrittrice, ammettendo la scissa verità: sono più sincera ed emotiva in serbo, più precisa in inglese e forse più brillante in italiano. E non sono mai una, integra o la stessa persona. Dopo essere sopravvissuta alla tragedia, mi sento più ricca, quasi un’aliena cosmica, superiore ai confini umani nazio­nali, nazionalisti, xenofobi e campanilisti.
La lingua di Ana però tocca le sfere profonde della memoria intraducibile di Proust di una bambina che si sente abbandonata dalla madre, l’infelicità senza desideri di una spaesata di Musil, lo stile sobrio femminista socialista della Bronte in Jane Eyre: poor rich girl.
Appoggiata ai temi dell’eterno poetico Ana, la ragazza moldava in Italia, naviga nel mondo odierno degli sradicati che vivono su internet, nella giungla di nessuno. Però siamo una nazione che vive lì, nomadi linguistici per scelta, per condanna, noi globalisti del futuro, rinchiusi nel virtuale.
Ma la nostra autrice di origine bosniaca non è moldava e non è neppure innocente: ha vissuto e scritto libri autobiografici, diaristici, fin quasi da bambina, e adesso, da adulta, è proprio quella bambina cresciuta scissa in due che presta la sua voce a un’altra bambina. È una storia fiction-faction, credibile e inverosimile quanto lo può essere la storia metaforica del nostro Arturo sulla sua isola.
Il dramma della lingua, delle parole nascita e rinascita è antico quanto l’essere umano. Domare la lingua è come cavalcare un cavallo selvaggio. È difficile per tutti, ma ancor più per le donne, per le donne straniere, che scrivono nella lingua non materna. Elvira è riuscita a farmi stringere il cuore, come ha fatto Elsa Morante a darmi quell’energia extra: tutt’e due con il virus della parola nomade, che si trasmette da una lingua all’altra. La lingua è contagiosa, attenti, tutti voi che prendete in mano i libri di letteratura! Mordono!

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