Il mio Giappone tremendo e stupendo

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Questo “mio” Giappone talvolta mette veramente a dura prova. Posso dire che “non c’è modo di starsene fuori da ciò che lo rende tremendo e stupendo” (descrivendolo con le stesse parole di una canzone di Ligabue). Questa per me è un’esperienza inevitabilmente vissuta in modo intenso, una continua sorpresa, una continua scoperta ma, non posso ometterlo, anche una continua lotta per tenere il ritmo, per integrarsi e per essere indipendente.

È una continua corsa per stare al passo con i ritmi lavorativi. Qui, se c’è da fare una cosa la si fa, senza guardare che ore sono, senza sentire la stanchezza; è così che si ottengono “good results” e che poi si ripetono, si confermano, si indagano. Ieri ho messo piede in laboratorio alle 7.00 del mattino e sono uscita alle 22.00 di sera. Alle ore 19.00 (cui ero arrivata tra l’altro saltando il pranzo) lo strumento che stavamo utilizzando si è bloccato nel bel mezzo dell’ultima fase sperimentale della giornata e il mio collega, senza molto scomporsi, mi ha spiegato che andava ricalibrato prima di riprendere l’analisi e portarla al termine. Questo avrebbe richiesto un paio d’ore almeno. In fondo si trattava di un mio esperimento, lui mi stava solo aiutando ad utilizzare lo strumento, io dunque non volevo che facesse tardi per causa mia, ma lui ha anticipato il mio pensiero dicendomi subito che non c’era alcun problema. Così siamo rimasti per portare al termine il lavoro. Ma non eravamo di certo soli. Alle 22.00 i corridoi e i laboratori erano ancora animati da persone affaccendate. Io ero KO, per loro era una situazione del tutto normale. È vero tuttavia che nei laboratori di ricerca di tutto il mondo vige la regola che non ci sono orari da rispettare e non ci sono giorni di festa, perché i tempi sperimentali spesso e volentieri non coincidono con orari prestabiliti come quelli di una giornata lavorativa standard. Anche nell’istituto di Padova dove lavoravo ci si ritrova molto spesso a stare in laboratorio fino a tardi o nei week-end ma l’affollamento dei locali in questi orari e in questi giorni non è di sicuro lo stesso delle 10.00 del lunedì mattina. Qui invece tutto mi sembra scorrere in maniera continua, senza sosta, senza eccezioni. Se non fosse per il sole che sorge e tramonta, qui dentro si avrebbe l’impressione che non esistano il mattino e la sera o il giorno e la notte. Che io esca di qui alle 18.00, alle 20.00 o alle 22.00 in laboratorio ci sono sempre quasi tutti i miei colleghi con delle provette in mano o di fronte al pc ad analizzare dati. A meno che non siano sposati e abbiano dei figli (uniche eccezioni, per fortuna), i ragazzi della mia età vivono da soli in un appartamento vicino al campus e sono tutti auto-muniti. Sembra che a nessuno di loro pesi stare al lavoro fino a tardi, tornare tardissimo la sera e dormire probabilmente 4 o al massimo 5 ore ogni notte.

Vista la mia attitudine ad essere precisa e scrupolosa (anche troppo forse), molti dei mie colleghi e amici sostenevano che sarei stata perfetta per il Giappone. Pure il mio responsabile qui mi dice che sono italiana ma, allo stesso tempo, sono piuttosto giapponese in certe cose. Eppure io qui mi sento molto italiana. Mi sento molto italiana ad aver bisogno di staccare dopo una certa ora del pomeriggio, mi sento molto italiana perché ho bisogno di sentire la mia famiglia quasi tutti i giorni e anche perché credo di aver bisogno di vacanze. Forse in questo sono più italiana di quello che si pensava, di quello che io stessa pensavo.

È una lotta anche per riuscire a diventare una di loro e, allo stesso tempo, per riuscire ad essere il più possibile indipendente. Io sono partita senza conoscere una parola di giapponese e questo sicuramente non mi ha aiutata ad integrarmi. Se a questo si aggiungono la loro scarsa capacità di dialogare in inglese e i ritmi lavorativi sostenuti si può dedurre quanto non sia semplice instaurare dei rapporti con le persone, che non siano di circostanza. Inoltre, ogni volta che ricevo della posta, che non sia il solito volantino del pizza delivery vicino a casa, sono costretta a portarmela al lavoro e farmi dire da qualcuno di che si tratta, se è una bolletta da pagare, dove, quando. Oppure ogni volta che ho bisogno di qualcosa che non richieda semplicemente leggere un prezzo nel display di una cassa, ma che necessiti un minimo di dialogo (come recarsi al municipio, in banca, acquistare un telefono, delle medicine), ho bisogno che con me ci sia un interprete. Questo può essere divertente ma talvolta può anche diventare un problema. Più di una volta mi sono sentita dire “Your language is a problem, because here people speak in Japanese”.

Per riuscire ad avvicinarmi di più a questo mio Giappone, per tentare più attivamente di diventarne parte e, se non altro, per la quotidiana sopravvivenza, sto frequentando dei corsi base di Giapponese. Questa lingua tuttavia, non è sicuramente facile da imparare per chi vi si approccia per la prima volta (tantomeno in un periodo di sei mesi e facendo tutt’altro dalla mattina alla sera). Basti pensare che la lingua scritta è una combinazione di ben tre tipi diversi di scrittura, l’hiragana, il katakana, e i caratteri kanji. La soddisfazione è grande però quando si riesce a rispondere correttamente ad un saluto o al ringraziamento di un collega nella sua lingua e il sorriso o i complimenti che ti vengono restituiti ripagano certamente il tuo piccolo sforzo nell’impararlo. Al momento il mio giapponese non mi permette sicuramente di sostenere una conversazione ma qualche piccola soddisfazione me la sta dando.

Non tutti però, devo dire, sono disposti allo scambio, all’interazione con me. Non perché non vogliano, ma perché, credo, ne sono davvero intimoriti. Se per sbaglio mi rivolgo ad alcuni dei ragazzi più giovani, ad esempio per chiedere dove si trova un reagente (di cui magari sto tenendo in mano la bottiglia vuota, indicandola col dito indice), alzano le mani e poi scappano via alla velocità della luce per chiamare chi invece sanno essere in grado di parlare un po’ di inglese. Ormai mi ci sono abituata a queste scene. Anche alcuni dei miei coetanei talvolta evitano di aver contatti con me, forse per timidezza o forse per paura di far brutta figura con l’inglese e i miei tentativi di metterli a loro agio non sempre sono efficaci.

Non tanto tempo fa, un ragazzo con cui lavoro mi ha confessato di voler imparare a parlar bene l’inglese, come faccio io, diceva (e vi assicuro che io mio inglese è tutt’altro che eccellente). Io gli ho chiesto dunque se avesse mai pensato di trascorrere un periodo all’estero, magari negli Stati Uniti, dove ci sarebbero molti laboratori di ricerca disposti ad accogliere uno studente con le sue competenze. La sua espressione è stata molto più significativa del suo “mmm… I don’t think so”.

Il nazionalismo dei giapponesi è ben noto. Secondo me tuttavia molti di loro non sono chiusi rispetto al mondo esterno per diffidenza ma forse per paura o timidezza e talvolta, parlando con loro, ho quasi l’impressione che semplicemente qui abbiano tutto quello di cui hanno bisogno.

Susi Zatti

Questa foto è stata scattata durante una mia fuga serale dal laboratorio. Ero scappata per una breve passeggiata nel parco di fronte al campus, concedendomi una piccola pausa dal ritmo frenetico del lavoro. Ho così potuto gustare questo bel tramonto sul Lago Nakaumi che, insieme a molte altre piccole cose, mi ricorda come, nonostante a volte “tremendo”, questo mio Giappone sia davvero stupendo.

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