Immersi nella barriera corallina: ha le ore contate

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Si dice che non bisogna tornare a visitare uno stesso luogo a distanza di molti anni, perché c’è il rischio di dimenticarsi che la realtà è dinamica; che il turismo è un’industria crudele e doppia: può rendere accessibili luoghi impervi, può proteggerli e rivalutarli, ma anche banalizzarli e distruggerne la spiritualità.
Dire che le mete già battute non siano più quelle di una volta è anche una vecchia solfa molto di moda tra i visitatori, secondo i quali spesso, ad esempio, “l’intera Thailandia è cambiata e invisitabile”, salvo poi ammettere di non essersi mai mossi dalle isole più turistiche. C’è il rischio di cadere nella sindrome dell’ “ormai è troppo tardi”, che ci porta a scartare dal nostro itinerario innegabili patrimoni storici solo perché non sono più allo stato virginale della loro riscoperta.
Eppure ci sono degli esempi di bellezza naturale che sono condannati a divenire rarissime eccezioni, rendendo la regola del troppo tardi una legge appropriata.
“Non lasciate nulla sulla spiaggia, se non la vostra impronta”, recitava un cartello esposto su un’isola del parco delle Surin. Ma quanto è profonda a volte l’impronta dell’uomo, artefice e vittima dei suoi stessi eccessi? La natura lavora in maniera paziente su scale temporali che vanno dai secondi di un terremoto ai milioni di anni del ciclo roccioso. L’uomo sovverte i ritmi con una velocità che spezza gli equilibri e ferisce la natura. Solo temporaneamente forse, ma in maniera definitiva se pensiamo alla scala temporale umana.
Prendiamo la barriera corallina, che con le sue trame subacquee così intricate offre rifugio e nutrimento a comunità enormi di animali. Abbiamo fatto di tutto per eliminare dai fondali questo ecosistema variegato. Una volta anche il Mediterraneo era zeppo di coralli rossi, ma sono tempi lontani: già gli antichi avevano provveduto al saccheggio di queste rocce animali considerate di altissimo valore. Il corallo è fragile, la sua sopravvivenza dipende da equilibri tra temperatura e acidità dell’acqua estremamente delicati. I coralli tropicali, ad esempio, sono sensibili al riscaldamento del mare: i polipi che dipingono con tonalità meravigliose la loro superficie vengono espulsi, lasciando la roccia nuda e bianca. Il corallo può riprendersi, ma quando viene sottoposto a uno stress eccessivo cede definitivamente.  È quello che sta succedendo: a causa delle smisurate emissioni di gas serra dovute all’attività umana (ogni tentativo negazionista è ormai patetico, anche se sponsorizzato dal potere economico dominante) anche la temperatura dell’oceano è in aumento, così come la frequenza degli eventi climatici estremi.
La percentuale di barriera corallina persa negli ultimi anni è spaventosa. I modelli climatici affermano quasi a voce unica che entro pochi decenni rimarrà così poco corallo che per vederlo i subacquei dovranno mettersi in coda. Noi abbiamo indossato maschera e boccaglio e, isola dopo isola, la drammaticità di questo conto alla rovescia si è unita alla grande meraviglia che scaturisce dalla scoperta di un mondo sottomarino così variopinto.
Le isole Surin, questo Eden tropicale abitato solo dai gitani del mare di cui abbiamo già parlato, ci hanno regalato emozioni forti anche sott’acqua. Il mare è considerato uno dei punti migliori al mondo per lo snorkeling, l’osservazione sottomarina in superficie. La visibilità arriva all’incredibile distanza di oltre 30 metri, l’estensione della barriera corallina è da record e lo stato di conservazione dell’area la rende un punto focale per la biodiversità delle specie animali. Nel 2009, questa fu tra le aree più colpite dallo tsunami. Flotte di appassionati e scienziati partirono in spedizione per controllare lo stato dei coralli. Si pensava a un danno irreparabile, ma così non era stato. Arrivò invece l’anno dopo, nell’estate del 2010, quando il permanere di condizioni estremamente calde per mesi provocò uno sterminato fenomeno di bleaching (lo “sbiancamento” appunto) che in alcuni tratti arrivò a coinvolgere il 90% del corallo.
Quello che abbiamo visto con i nostri occhi è stato una gran quantità di pesci di tutti i colori e le dimensioni che si aggiravano per praterie di coralli bianchi come statue, come congelati. Alcune zone mostravano dei segni di ripresa, ma anche la temperatura dell’acqua di quest’anno non lasciava presagire una ripresa facile. Passare da lì alle isole del Golfo in Malesia, le Perenthian, fortunatamente interessate molto meno dal bleaching del 2010, è stato come passare da uno sfondo in bianco e nero ad uno schermo a cristalli liquidi. Percorrendo i 24 metri di profondità lungo cui si estende il “tempio del mare”, il sito più celebre per gli appassionati del diving di questo arcipelago, coralli rossi e verdi si accendevano nel blu che li circondava, coralli neri maestosi ed intricati si ergevano come pilastri accarezzati dai coralli morbidi, che tremavano alla corrente marina come ventagli cinesi.
Il colore. Una caratteristica fondamentale del grande spettacolo sottomarino tropicale, ma anche un termometro dello stato di salute di questo ecosistema fragile. Salvarlo, per la maggior parte della sua estensione, è ormai una speranza quasi infondata. Non ci resta che proteggere ciò che abbiamo e immergerci finché non cala il sipario.

Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro

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