Incontrare Sandokan ad Herat

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Oggi, percorrendo il chilometro di strada sterrata che separa il mio alloggio dall’ufficio, ho incrociato diverse squadre di operai intente a sistemare il manto stradale (si usa dire così da queste parti quando si eseguono lavori che servono ad aggiustare le strade ciottolose, per migliorare la loro agibilità quando si è con i mezzi).

Davanti al mio ufficio, ce n’erano altri che lavoravano sulla parte stradale poco lontana da dove lavoro. Intorno ho notato parecchi cantieri aperti: si cerca di fare quanti più lavori possibili in questo aeroporto, costruendoci nuove strutture per renderlo più confortevole ora per noi che ci operiamo, ma si spera che un giorno possa servire quando finalmente l’intera installazione verrà restituita agli afghani, legittimi proprietari.

Intanto di positivo c’è che questi cantieri stanno dando un lavoro economicamente “più sicuro” alla gente del posto e quindi a questi operai.

E’ la strada giusta appena intrapresa, per avviare l’intero Paese a un reale sviluppo. Andando in ufficio, sono passato tra di loro: tra la polvere scavavano la strada ghiaiosa, grazie all’aiuto di grossi martelli pneumatici. La maggior parte, mentre lavorava all’aperto tra caldo e polvere, indossava “kefiah afghane” al collo e legate intorno alla testa per ripararsi dal sole e dalla polvere: una specie di foulard tipico del posto.

A quasi una settimana che sono qui, ne ho visti tanti in giro di questi oggetti, ne avevo notati anche in vendita al mercatino che ho visitato domenica scorsa. Persino alcuni miei colleghi le indossano: “…è anche questo un modo per avvicinarci a loro, lo apprezzano tanto…” – mi aveva spiegato Stefano in aereo durante il viaggio.

Qualcuno mi ha salutato, qualcun’altro mi ha regalato un sorriso continuando comunque a lavorare, altri, nella loro lingua, discutevano. Giunto davanti all’ingresso dell’ufficio, dopo aver tirato fuori la chiave e aperto la porta dopo “due mandate”, si è avvicinato uno di loro con un sorriso, come se mi volesse chiedere qualcosa.

Sono rimasto fermo per qualche istante a guardarlo, poi l’ho riconosciuto: era un operaio che ieri era con Shakiba nell’altro cantiere. E’ un personaggio abbastanza conosciuto qui a “Camp Arena”, molto curioso, ha una folta e vistosa barba, mentre lavora indossa sempre pantaloni lunghi fin sotto le ginocchia, un paio di sandali, una maglietta azzurra: non so come si chiama, ma si fa chiamare da tutti “Sandokan”, per via della somiglianza fisico-somatica al personaggio romanzesco.

Tanti miei colleghi mi avevano già parlato di lui in alcune circostanze, mentre ci capitava di incrociarlo. Gira spesso per l’aeroporto, lavora spostandosi di cantiere in cantiere, si alterna spesso anche con la squadra che si occupa delle pulizie, in pratica lo impiegano dove c’è richiesta. So che è un uomo di poche parole, saluta tutti educatamente, è sempre molto serio e di lui si sa che è sposato e ha ben nove figli da sfamare, nonostante abbia poco più di quaranta anni.

Ieri quando ero nell’altro cantiere non ho avuto un grosso contatto diretto con questa persona, a causa del suo modo di fare riservato, e quasi diffidente, ma lo notavo mentre “arraffava” bottigliette di acqua confezionata, riponendole poi, in alcuni sacchi di plastica, presumibilmente per portarle a casa. E‘ famoso per il fatto che quando gli donano generi alimentari, raccoglie e porta sempre a casa: preferisce portare per sfamare la sua numerosa famiglia, piuttosto che consumarli al momento.

Questo racconta di lui anche chi lo conosce. Chi me ne ha parlato ha dovuto allacciare un rapporto di “amicizia” con i gestori delle mense per permettergli di riuscire a racimolare un po’ di viveri che di tanto in tanto gli vengono donati.

Dopo averlo riconosciuto mi son fatto avanti senza entrare in ufficio e ho lasciato la porta semi-aperta: Dimmi pure, Sandokan, hai bisogno di qualcosa?” – gli ho chiesto.

“Salam! – mi ha salutato, parla poco italiano e pochissimo inglese, si fa capire con le poche parole che conosce alternandole tra l’italiano e l’inglese appunto, a volte anche dai gesti – io e miei amici,… chiedo per favore, qualcosa da bere, grazie, avresti per favore bibite fresche per noi?…one drink?…” – mi ha chiesto col viso abbronzato e imperlato di sudore per via del caldo e con un mezzo sorriso sulle labbra.

“Yes…vado dentro e te le porto subito…” – gli ho risposto mentre con un mano spalancavo la porta ed entravo.

Abbiamo sempre delle scorte di bevande con noi, di solito è la mensa che ce le fornisce, gli operai mentre lavorano lo sanno che le abbiamo, ecco perchè ce le chiedono… Ho preso un sacchetto di plastica, ho aperto il frigo che abbiamo in dotazione in ufficio e ho preso un po’ di lattine di bibite e qualche bottiglietta d’acqua. Il sacchetto, colmo di bevande l’ho passato a Sandokan, che con la mano al petto e il capo chinato, come fanno loro, mi ha voluto ringraziare, compiendo il consueto gesto ripetutamente. I suoi amici vedendoci da lontano si sono avvicinati e Sandokan col sacchetto aperto ha offerto anche a loro le bibite che gli avevo passato. “Oh my friend italiano, come stai?…thank’you very very much, per bibite!” – mi ha detto uno di loro con la lattina sollevata a mezz’aria in segno di brindisi.

E’ un ragazzo che vedo spesso anche lui lavorare per i cumuli di terra e ghiaia che rappresentano qui i tanti cantieri. “Where are you from….di dove siete ragazzi, tutti di Herat e dintorni?” – facendo questa domanda, tutti mi si sono accerchiati intorno. Li ho contati, la squadra, formata da sette persone, mi osservava con un sorriso di compiacenza.

“I’m Herat…Io Shindad…I’m Herat….Anche io Herat….Anche io….I’m Bala Murgab..” – mi hanno risposto in progressione, dando il nome della loro provenienza.

Sandokan però, è rimasto zitto e io: – “tu Sandokan di dove sei?…”. Mi ha guardato serio, sembrava non avesse avuto voglia di rispondere, ho deciso di non ripetergli la domanda, …poco dopo però: – “I’m di Gulran” – finalmente mi ha risposto.

Persona quasi strana Sandokan, – “Chissà perchè non ama parlare tanto…” – mi son chiesto. Per non creare eventuali disagi visto la presenza dei suoi amici, ho evitato di andare a fondo nel dialogo con lui. Ho osservato “la squadra” per tutto l’arco di tempo che sono stati lì con me durante la loro pausa, mentre bevevano, bisbigliando qualcosa nella lingua madre tra di loro e mi lanciavano di tanto in tanto occhiate.

Ho pensato e fantasticato a lungo su quello che si potessero dire e sulla storia che ognuno di loro potesse portare dietro, cercando di immaginare le loro famiglie, i loro drammi e le loro voglie di riscatto. “Siete contenti della nostra presenza, qui da voi?” – ho azzardato a chiedere.

La domanda era esposta in generale a tutti i presenti, e tutti hanno manifestato il loro assenso con un sorriso: strano, ma ha sorriso persino Sandokan!

“Siamo molto contenti della vostra presenza qui, Herat come gran parte dell’Afghanistan sta cambiando notevolmente”.

“Finalmente abbiamo le scuole, gli ospedali e ci state dando un forte aiuto. Gli italiani per noi è gente amica”. Una risposta che già mi aveva dato Shakiba. Questa volta è stato Zamir, che è un uomo dalla barba grigia, gracile, molto simpatico e sempre col sorriso stampato sul viso. “Io ho 46 anni – mi ha spiegato – grazie a voi da cinque anni ho un lavoro, ho una moglie e due figlie, una di dodici e l’altra di dieci anni. Sono contento perchè grazie alla vostra presenza riesco a mandarle a scuola, sanno leggere e scrivere, cosa molto importante per noi vista la situazione che avevamo fino a qualche anno fa. Credo che senza di voi, non penso che sarei mai riuscito a farle studiare.”

Per come abbia preso subito la parola Zamir, ho capito che è stata forse la persona più aperta del gruppo.

L’ho visto anche lavorare, ho visto che fatica parecchio e ho capito che è ben disposto ad impegnarsi per cercare di cambiare le cose per il suo Paese.

La pausa è terminata, mi hanno rinnovato i ringraziamenti per averli “dissetati” e sono tornati tutti e sette al loro lavoro.

Sono rimasto contento di aver colloquiato anche con loro, il dubbio per Sandokan però, mi è rimasto.

QuattroGi

(Giovanni Quattromini)

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