La Befana in Tipografia

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Quella sera di fine dicembre in fabbrica avevamo fermato le macchine prima del solito ed eravamo tutti riuniti per i saluti e gli auguri di fine anno nella sala mensa; io ero ritornato in fabbrica da poche settimane, forse un paio, dopo che ero guarito da quella brutta influenza che mi prendevo ad ogni tardo autunno specie con i giorni freddi e nebbiosi che abbiamo qui al nord.

Ci avevano detto che sarebbero venuti i proprietari e che anche il direttore di reparto ci avrebbe fatto i suoi saluti. E così avvenne. Ogni anno in quella occasione, assieme alle strette di mano e agli abbracci ci veniva dato un pacco dono che ricordava la vecchia tradizione della Befana, dura a morire qui a nordest: i vecchi paroni convocavano tutti gli operai e davano un regalo per i figli, di solito roba da mangiare e dolci. Anche i paroni più giovani mantengono, quando possono, la tradizione.

Io non volli mancare e, nonostante mi sentissi ancora un po’ debole e non potessi bere vino per quei trascorsi che avevo, brindai con tutti fino a che mi girò un po’ la testa, ma ero felice: il vino mi faceva sempre quell’effetto e anche la mia balla era di quelle buone e sorridenti.

Però mi ricordo ancora di quella volta che accompagnai a casa la Gina e la Nadia dopo la festa dell’ultimo dell’anno dagli amici del calcetto: ero davvero alticcio e i CC che mi fermarono all’imbocco della strada per la contrada Cengia, non ci misero più di cinque minuti a farmi il palloncino e a ritirarmi la patente. Ci feci una figura meschina e le ragazze – una me la stavo lavorando perché forse avrei potuto combinarci qualcosa la volta seguente che ci fossi uscito assieme – dovettero tornare a  casa in autostop col freddo che c’era e la pioggia che cominciava a bagnare asfalto e campi intorno e i loro cappotti della festa:  non me la perdonarono mai.

Nella serata fredda invernale i saluti tra colleghi scaldarono l’atmosfera e si allungarono fino alle 20; mi aspettava poi a casa mia sorella con il solito piatto di minestra di verdure – la preparava sempre alla domenica e la metteva in frigo  per farla durare tutta la settimana – a quell’epoca vivevo con lei, dopo la morte dei vecchi che erano mancati da un paio di anni, uno dopo l’altro: prima era successo a mia madre all’improvviso e poi a mio padre per colpa di quella maledetta polvere che aveva respirato alle officine delle FS nel reparto dei freni e Io non avevo voluto fare la sua fine e avevo trovato un posto in tipografia, almeno lì la polvere micidiale non c’era e tutto era bianco candido e pieno di luce.

Poi da sempre mi piaceva quell’odore di carta stampata: sin da piccolo, quando andavo a far visita al prete in canonica e lo trovavo immerso tra i libri della liturgia, che leggeva “per lavoro” e quelli suoi “privati”, mi ci fermavo volentieri e mi leggeva qualcosa lui, a suo gusto. Appena girava l’occhio, se potevo e trovavo un libro interessante e soprattutto piccolo da starci nella tasca del giaccone – quello stesso che indossavo da settembre a marzo – ve lo infilavo in fretta per poi divorarmelo da solo dietro il garage tra la catasta di legna per la stufa e le casse di bottiglie d’acqua. Solo ogni tanto interrompevo al lettura e mi inebriavo di quell’odore di carta e di stampa che il libro conservava e chiudevo gli occhi ed immaginavo  un mondo fatto di carta tutto bianco lattiginoso e con le frasi intrecciate a formare le case, gli alberi, le nuvole…sognavo sognavo sognavo; di solito le grida di mia madre che mi chiamava per qualche commissione o anche solo per controllarmi, mi riportavano alla realtà del cortile dietro casa.

Alla fabbrica tornammo il 2 di gennaio, appena dopo la grande nevicata di Capodanno e mi fece un non so che trovare che il candido  colore del paesaggio non avesse fine quando vi entravo: anche in fabbrica tutto era bianco e ogni cosa pareva coperta di capoc dentro e fuori le pareti.

Quel giorno si doveva procedere con le nuove partite di libri per la Russia e per la Francia, secondo gli ordini che erano arrivati il mese prima e il lavoro sarebbe proseguito fino alla fine della partita. Quando la macchina era avviata al mattino fino alle 12 potevo starmene tranquillo e dovevo solo controllare che tutto andasse per il verso giusto; in realtà io mi “imboscavo” dietro la macchina dove mi ero ricavato una specie di cantuccio solitario che nessuno conosceva; mi ci rannicchiavo a leggere più libri che potevo: ero passato dalla narrativa italiana classica e meno (Buzzati, Calvino, Levi, Rigoni Stern, Corona) alla poesia dialettale (Calzavara, Zanzotto, Marin) e ogni tanto facevo qualche affondo nella saggistica – soprattutto storia e costume (Stella, Travaglio, Pansa) -.

Stavo lì soprattutto la mattina e quello era divenuto per me il momento più bello della giornata, ma poteva capitare che anche il pomeriggio dovessi stare alla stessa macchina e allora era per me una gioia. La pausa pranzo invece era una pena;  sul più bello della mia lettura magari ad una pagina dalla conclusione di un capitolo o addirittura del libro, poteva capitare che suonasse la sirena per la mensa e dovessi abbandonare il mio “nido” di lettura. Non avevo rivelato a nessuno il mio segreto e tutti infatti si stupivano che io non vedessi l’ora di rientrare a lavorare e al suono della seconda sirena fossi il primo della fila a precipitarmi alla mia postazione.

Continuavo così ormai da qualche mese e nessuno mi diceva nulla perché nessuno passava mai in quell’angolo del reparto dove stavo io. E se mi chiamavano per un qualche motivo particolare, tipo il controllo della macchina o la manutenzione, mi alzavo in tutta fretta e in un battibaleno scattavo in piedi e tutto risultava regolare. Se poi passava il caporeparto in persona, non era mai per me, ma per richiamare la collega Diana che si sapeva – lei sì – batteva davvero la fiacca e poi era sempre distratta e aveva già sciupato molti libri, compromettendo il mese prima addirittura una partita di vocabolari per l’Ucraina. Io invece sapevo calcolare i tempi giusti: oramai ero in piena simbiosi con la macchina e lei non mi aveva mai tradito. Avevo 15 minuti di tempo prima che lei facesse fare il giro ai libri e che fosse necessario il mio intervento per il controllo. Avevo imparato subito a regolare i miei gesti e a ritagliarmi gli spazi necessari per leggere almeno 8/10 pagine. Il gusto della lettura mi cresceva di giorno in giorno anzi di ora in ora ed ero ormai arrivato quella fine anno a quota 120 libri letti: una media di dieci al mese o anche più considerando le ferie e la malattia che avevo avuto il mese prima.

Per quell’inizio anno però mi ero prefissato un altro obiettivo e la lettura era stata solo il primo passo; decisi che avrei cominciato a  narrare la mia storia in fabbrica e mi portai uno di quei mini tablet con cui potevo scrivere anche nello spazio angusto ricavato tra le braccia avvolgenti della macchina.

Cominciai con i primi di gennaio, un po’ prima dell’Epifania. Scrivevo di nascosto e questo mi dava quell’ebbrezza e adrenalina più adatte a trovar le parole e a scrivere rapidamente; le dita scivolavano velocissime sui tasti al ritmo della macchina “offset” e ad ogni uscita di una nuova copia dei libri che la macchina doveva confezionare, anch’io completavo uno o due paragrafi. La simbiosi era perfetta…

Le parole si stagliavano nitide e nere sullo schermo bianco; ad ogni frase mi pareva di liberarmi da un peso e mi sentivo leggero leggero: la stessa sensazione che avevo da ragazzo quando trovavo un foglio bianco in casa o negli uffici dove mia madre mi portava con sé nel giro mensile della posta e degli uffici del comune. Lo raccoglievo, lo piegavo con cura e lo mettevo in tasca numerandolo – andrà bene per scriverci il mio romanzo – pensavo tra me e me e così proseguii per mesi…

Questo qui è il primo capitolo…

Mi pare un buon inizio…;-)

Bruna Mozzi

Leggi tutti i racconti di Cara Fabbrica

Ti potrebbe interessare

Libia, la guerra per immagini
Visti da là
La vignetta spezzata
“Passa tutto per la terra”
Voci per la libertà, per band emergenti