La Malacca sedotta e conquistata. Storia di un ammiraglio cinese

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Il fiume sfocia nello Stretto di Malacca

Dalla statua monca del missionario portoghese San Francis Xavier, lo stretto di Malacca ci appare come una massa grigia solcata da nubi gonfie di pioggia che portano il loro carico tra la Malesia e l’Indonesia, con grosse navi cargo che pigramente si muovono verso l’Europa.

Una chiesa diroccata con tombe di commercianti morti troppo presto di chissà quale malattia tropicale, un’altra più in forma e più moderna, un quartiere in cui facce orientalissime vantano antenati che suonavano il Fado, appendono crocefissi e “padre pii”, e cucinano deliziosi granchi e frittura di pesce. Ecco quello che è rimasto dei Portoghesi che, sbarcati con la forza ai primi del 1500, si fecero costruire dagli schiavi  una superfortezza e la cui nave del tesoro è miseramente affondata anche grazie alle maledizioni dei locali. Gli ori e i preziosi giacciono ancora in fondo al mare, con buona pace di pirati e subacquei.

Gli olandesi invece, dopo aver sconfitto i nemici lusitani, hanno lasciato qualche casa in stile europeo, nomi di strade e il municipio. Degli inglesi, dominatori tra le guerre mondiali con una breve pausa giapponese, si sono salvati i servizi di piatti e i bagni in stile vittoriano delle case signorili.

La vera impronta indelebile, scolpita nei visi, nei templi e nelle lampade appese lungo le vie, è cinese. I commercianti cinesi, i primi a giungere in questo stretto per cercare riparo dalla forza dei monsoni, gli unici a venire in pace in questa città dove gli odori di storia e leggenda si fondono insieme come quello delle spezie. L’espansione cinese ha un simbolo che svetta su tutti gli altri: l’ammiraglio Zheng He.

Il musulmano cinese Zheng He era stato catturato all’età di sette anni dall’esercito Ming in espansione. Ebbe solo il tempo di lasciare una barchetta di carta alla sua amica di infanzia:  fu reso eunuco e portato a corte, dove il suo talento fu presto notato, tanto da divenire uno dei favoriti dell’imperatore.  Gli venne affidata una flotta immensa, la più grande mai costruita in legno: più di mille navi, ventottomila uomini. Le imbarcazioni più grandi, quelle del tesoro, erano grandi come un campo da calcio. Cristoforo Colombo, al confronto, pilotava modellini. Dal 1405 al 1433, l’Ammiraglio navigò in lungo e in largo nell’Oceano Indiano, esplorando le coste dell’India, di Ceylon, dell’Arabia Saudita, del Corno d’Africa, e naturalmente del Sud-Est asiatico. Combatteva i pirati e usava l’arma della diplomazia e del commercio con i popoli autoctoni, portava i doni, le spezie e gli onori dei Ming, tornava con ambasciate e regali esotici (come una giraffa somala). A Malacca, dove alcuni cinesi già risiedevano, Zheng He faceva tappa fissa: il porto era una conveniente base di rifornimento, e in cambio la sua flotta proteggeva il sultano dagli attacchi del Siam. Fu talmente benvoluto che portò le teste coronate alla corte dei Ming. Pochi anni dopo, una principessa cinese arriverà con un migliaio di seguaci per sposare il sultano, dando origine alle ricche famiglie Baba e Nyonya, fusione dell’etnia cinese con quella malese.

La grandezza di quest’uomo è testimoniata dal fatto che è considerato uno dei padri dell’Islam di questa regione, tanto che a lui è intitolata una moschea, ma è adorato come un dio anche dai taoisti cinesi. Il Sanbao Temple infatti ricorda la leggenda secondo cui un pesce si inserì nella falla della nave di Zeng He (di cui Sanbao era un altro appellativo), salvandola così dal naufragio.

Nel centro storico di Malacca, le sue avventure sono descritte in un interessantissimo museo, trascurato da molte guide turistiche, che abbiamo trovato per caso grazie alla gentilezza e ai racconti di una malese che serve il tè proprio alle porte di quello che era un magazzino dell’Ammiraglio. E’ esposto anche un libro, “1421”, che specula su un possibile viaggio di parte della flotta verso le Americhe e l’Australia,  che sarebbero così state “scoperte” ben prima di Colombo e delle spedizioni inglesi. Alcune prove sono alquanto fantasiose, altre più sensate: si va dalle tracce del DNA cinese negli indiani d’America alla presunta presenza di prodotti americani nelle navi della flotta. (ndr. L’autore però è lo stesso che vagheggia sulla presunta origine cinese del Rinascimento italiano).

Comunque la si pensi, la dimensione epica del personaggio è immensa ed è lo specchio della grandezza della Cina e della nostra illusione di volerci considerare al centro di tutto, tanto da sorprenderci che il colosso asiatico torni oggi alla ribalta, pur gonfio di post-modernità e consumismo, adombrato da un comunismo ipocrita e forse apparentemente svuotato della sua identità millenaria.

Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro

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