La polvere di Herat: con i muratori al cantiere

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Herat, 14 luglio 2010

Concluso finalmente tutto l’iter di “inserimento” e pronto per “operare” in questo contesto, finalmente da due giorni ho iniziato a fare quello che richiede il mio incarico: sto iniziando a mettere finalmente in pratica ciò che faccio al Reparto in Italia.

La situazione è completamente diversa, l’attenzione deve essere più alta e col lavoro e coi colleghi sto avendo un’ottima intesa.

Sono sicuramente più motivato qui che in Italia, e i primi due giorni di attività sono volati: è ancora troppo presto, ma spero che sia così anche per i prossimi giorni.

Oggi mi è stato assegnato un compito “speciale”, ossia quello di scortare una squadra di operai afghani su un cantiere, sono stato qualche ora ad “assisterli” mentre lavoravano: è stato molto interessante.

Mentre lavoravano li osservavo, erano in sei: cinque di loro giovani, in pratica dei ragazzi, il sesto una persona molto più anziana.

Ogni tanto qualcuno di loro, mi lanciava qualche occhiata e con l’immancabile sorriso, abbiamo anche scambiato qualche battuta.

Mi ha fatto “riflettere” il gesto di uno di loro che, lasciando qualche secondo quello che stava facendo e vedendomi lì fermo sotto il sole che li guardavo (non saprei dire quanti gradi ci fossero), sudato, si è avvicinato e mi ha offerto dell’acqua in una bottiglietta di plastica: ho provato dentro di me una sensazione strana, quasi imbarazzo e commozione.

Ho pensato tanto a questo: una persona che, lavorando per pochi soldi, che lotta per vivere, per quello che è l’Afghanistan e  tutto il resto, ha voluto “dissetarmi”.

Tale episodio ha permesso di mettere in evidenza la sua sensibilità e ha rappresentato per me, la vera genuinità di gran parte dei civili afghani, i quali, costretti per decenni ad essere succubi e vittime di violenze inaudite, capiscono cosa significhi negare qualsiasi diritto, come quello dell’acqua, all’altro.

Solo chi è in difficoltà e in prima persona soffre, può avere atti così nobili: questo è ciò che questo ragazzo oggi, ha rappresentato per me.

Offrire da bere: gesto scontato di generosità e altruismo, ma qui, compiuto da chi per primo ne avrebbe bisogno, ha un diverso valore e mi ha fatto pensare a un articolo che avevo letto qualche tempo fa, dove dalle parole di un abitante di Herat, in riferimento alle opere che stanno compiendo i nostri militari, diceva: “Vi ringraziamo perchè siete qui, perchè ci date lavoro e speranza”.

E’ di questo che qui la gente ha bisogno, speranza e opportunità per cercare di lottare contro le oppressioni ancora esistenti: è un dramma reale in Afghanistan da decenni e si deve cercare una motivazione per andare avanti!

Ho ringraziato quel ragazzo e ho accettato quella bottiglia, è stato come se con quel gesto mi avesse voluto dire: “amico italiano, io so cos’è la sofferenza…”.

A volte sono le piccole e insignificanti azioni che illustrano la grandezza che c’è dietro, una “grandezza” che spesso, fa i conti con la propria storia, la storia di un popolo, di una società che cerca a modo suo di reagire, lavorando per ritrovare dignità e che rispetta per essere rispettati: questo si vorrebbe che l’Afghanistan diventi!

Colmo di emozione, ho continuato ad osservare queste persone, sono rimasto fermo e zitto per parecchi minuti, è stato come se l’episodio mi avesse anestetizzato il cuore e il cervello.

Sarei rimasto così ancora per un po’ se non si fosse avvicinato un altro di loro: l’unico fra i sei che parlava meglio l’inglese e, sempre aggiungendo qualche parola in italiano: “My friend, how old are you?…come stai?…bene grazie!” mi ha detto.

Il “bene grazie”, credo che l’abbia usato forse per rafforzare quello che voleva dirmi realmente, del tipo: “amico, come va? tutto bene?”.

Io, intuendo, gli ho risposto: “Si, si bene grazie”…gli ho ripetuto.

Abbiamo parlato di tante cose, mi ha detto che si chiama Shakiba, ha 22 anni, è di Herat, fa il fabbro-artigiano.

Mentre lavorava, da lontano notavo che era quello “più in gamba” rispetto ai suoi cinque colleghi, più spigliato e più agile nei movimenti, ho visto che montava un enorme cancello in ferro, aiutato dagli altri. Dai gesti e dal tono di voce, ho capito che era colui che del lavoro di fabbro, fosse il più capace: sembrava anche che desse consigli su come dovevano svolgersi i lavori.

Shakiba mi ha raccontato che è andato a scuola finché è riuscito ad imparare a leggere e scrivere, dopo ha subito iniziato a lavorare nei campi con suo padre. (Non ho voluto azzardare a chiedergli se coltivavano oppio, per evitare di metterlo in imbarazzo).

Sarebbe andato via dall’Afghanistan probabilmente se non fossero arrivate le truppe italiane a dare una mano, soprattutto alla comunità di Herat.

Da quando siete arrivati voi italiani , abbiamo subito pensato che eravate amici, ci date un grosso aiuto, infatti Herat è cambiata di parecchio da quando gli italiani hanno assunto il controllo di questa zona, ci sono molto meno attentati, la gente ha più fiducia, ci state dando lavoro, avete fatto aprire scuole, siete molto preziosi per noi…”


Mi ha chiesto come mi chiamo e quanti anni ho, quando gli ho detto la mia età ha sorriso e mi ha risposto: “Sei più vecchio,…hai quasi dieci anni più di me…”

Poi mi ha chiesto se sono sposato e se ho figli, quando gli ho risposto che ne ho uno, lui mi ha chiesto: “ma…ragazzo o ragazza?…”

Avrebbe voluto dire: “Hai un bambino o una bambina?”

Gli ho risposto che ho un figlio maschio e la prima cosa che ha voluto sapere è stata se mi mancasse, poi mi ha confessato che anche lui vorrebbe diventare papà, visto che ha una donna ed è in procinto di sposarsi, ma non lo fa ancora perchè vorrebbe sistemarsi economicamente, prima…

“Appena finiranno i lavori che stiamo ultimando, inizieremo a lavorare in un altro cantiere, guadagniamo circa dieci dollari al giorno: quanto basta per vivere quì in Afghanistan e speriamo che rimaniate a darci “sostegno”, perchè per risolvere tutti i nostri problemi ci vorrà ancora tempo, tanto tempo…Ora vado devo finire di sistemare la porta che ho appena montato…A dopo!”

Mi ha salutato ed è tornato a lavorare con i suoi colleghi, ho notato anche che le attrezzature e gli utensili di cui dispongono per lavorare sono molto “blandi” e di scarsa qualità.

Utilizzano molto scalpelli e martelli, spesso sono in due quando devono fare un foro, per esempio: uno di loro mantiene lo scalpello con due mani e un altro ci dà energiche martellate sopra per fare forare poi il cemento.

Con un vecchio generatore a combustione fanno funzionare vecchi martelli pneumatici e “la sicurezza sul lavoro” lascia a desiderare: sandali, al posto di scarpe antinfortunistiche, e senza alcun tipo di protezione: siamo in Afghanistan, la gente a mala pena riesce a sfamarsi….

Sono trascorse circa quattro ore da quando hanno iniziato a lavorare, vedo che uno di loro (sembra il più giovane) si allontana, non capisco per quale motivo ed in poco tempo mi rendo conto: è andato a preparare il pranzo.

Il loro punto di ristoro è un container, dove ha tirato fuori dei sacchetti di plastica e dei contenitori, ha versato il contenuto in un pentolone, iniziando poi a mescolare energicamente.

Non sono riuscito a capire che cosa potesse essere: forse una specie di minestra o zuppa o qualcosa del genere.

Appena finito di preparare, il ragazzo richiama a sé l’attenzione, gli altri lasciano gli attrezzi, si avvicinano verso di lui: ora di pranzo, si siedono a cerchio per terra, in una posizione strana e scomoda secondo il nostro “stile di postura”.

Accovacciati e appoggiando il fondo schiena sui talloni, iniziano a mangiare.

Shakiba, che è stato l’ultimo a raggiungere il gruppo è passato prima a salutarmi: “My friend, and your change?…”

E’ da qualche anno ormai che questa gente lavora quì dentro, sono quasi “di casa” e conoscono bene ogni angolo della Base, così come conoscono tutte le abitudini e l’organizzazione della vita nel suo interno.

Shakiba sa che ad una certa ora, noi che li scortiamo, ci diamo il cambio e incuriosito dal fatto che il mio sostituto tardi ad arrivare, mi ha voluto chiedere come mai non fosse già lì.

Io sorpreso per la sua “invadenza” nei miei affari professionali (però contento del fatto che si sia interessato a ricordarmelo), non dicendo nulla, ho fatto una mezza smorfia di attesa indicando anche l’orologio: come se gli avessi detto “infatti lo sto aspettando e non capisco perchè non arrivi…”.

Ovviamente ho finto, anche se stanco ed accaldato per via della giornata molto soleggiante (ho bevuto in quattro ore quasi dieci bottigliette d’acqua da mezzo litro!). In realtà mi ha fatto piacere non vedere ancora arrivare il mio cambio e non mi dispiacerebbe trascorrere ancora qualche minuto con loro: mi incuriosiscono, è gente simpatica e mi sembrano veramente delle brave persone…

Da lontano li osservo: ora sembra che abbiano cambiato postura nello stare seduti, hanno le gambe piegate tanto che le ginocchia arrivano fin sopra al petto e stanno mangiando così.

Da lontano Shakiba mi richiama: “My friend!!!”….E mi fa segno se posso avvicinarmi con loro.

Li raggiungo: ha voluto offrirmi un po’ del suo pranzo.

Non avendo voglia di mangiare, ma incuriosito ho visto che ciò che mangiano somiglia tanto a una frittata: mi sono seduto accanto a Shakiba, gli altri suoi colleghi si sono spostati per farmi spazio, quasi tentato ad accettare il loro pranzo, più per curiosità. Ma sono stato “interrotto” dall’arrivo del mio collega per il cambio.

Vedendolo da lontano e non dovendo più accettare, scusandomi, ho ringraziato, li ho salutati e mi sono diretto verso il collega che da lontano, gesticolando, sembrava volesse farmi capire di essere dispiaciuto per il ritardo.

L’ho scusato tranquillamente, dopotutto mi ha dato la possibilità di poter stare di più con gli afghani.

Fatto il relativo “passaggio di consegne”, ci siamo salutati, con un cenno in lontananza, ho risalutato i sei operai e sono andato via.

Anche oggi nuove realtà, anche oggi persone nuove, ogni giorno inizia a diventare sempre più una novità che mi avvicina sempre di più a questo paese.

QuattroGi

(Giovanni Quattromini)

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