La razza sta negli occhi di chi la guarda

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Ne “La pelle che ci separa” (2008), la regista e scrittrice Kym Ragusa racconta la sua esperienza di bi-razzialità: figlia di un italo-americano e di una afro-americana, è una ragazza di colore nata a Harlem negli anni ’60. La sua pelle è di carnagione chiara (ligh-dark skinned) e l’esperienza le insegna che è troppo scura per gli italiani e troppo chiara per gli afro-americani. La concezione razziale di sé dipende allora dalle persone e dai contesti nei e con i quali Kym si trova ad interagire: la razza dipende dagli occhi di chi guarda.


Una situazione simile, riflessivamente, mi è capitata un paio di giorni fa, mentre stavo in Calabria. Gioiosa Jonica. Sono le 5.40 di mattina. Di ritorno per Padova, mi reco alla banchina degli autobus per prendere una corriera fino all’aeroporto di Reggio. Mancano venti minuti. Fra l’arrivo dell’autobus e l’imbarco c’è pochissimo tempo e dentro me spero vivamente di perdere il volo, per avere una scusa per prolungare le mie ferie. Mentre penso così, sulla banchina, osservo un ragazzo sui trent’anni, di carnagione molto scura, vestito con capi casual. Aspetta qualcosa o qualcuno, da ancor prima che io arrivassi. Visto l’orario e la sua apparenza, avanzano assunzioni sulla sua identità guidate da un senso comune tipicamente “sociologico”: sembra un immigrato, forse maghrebino, forse indiano, che aspetta un caporale che lo porti a raccogliere frutta nella piana di Gioia Tauro, o a lavorare come muratore, da qualche parte nella Locride. Passano 10 o 15 minuti e non accade nulla. Quindi, arriva un secondo signore. Ha sui 40 anni esi rivolge al ragazzo con un tipico accento riggitano, diverso da quello della Locride. Questi gli risponde a tono. A guardar bene, capisco che si tratta di due dei tanti professori precari delle scuole primarie e secondarie, costretti a insegnare per 24-36 ore, in plessi scolastici lontani anche oltre 100 km, l’uno dall’altro. Il ragazzo che avevo scambiato per straniero sarà nato a Reggio, o nel suo hinterland e insegnerà a Gioiosa, per colmare il suo monte ore.

Entrambe le condizioni, quella dell’immigrato occupato in nero e quella del calabrese costretto a far salti mortali nel settore pubblico, sono tipiche del contesto storico nel quale sto vivendo. Riflettendo, però, mi rendo conto che i miei occhi erano stati guidati da un pregiudizio e avevo scambiato un mio conterraneo per uno straniero. Proprio io, che tante volte vengo scambiato per egiziano o indiano, quando mi muovo per Padova. Mi rendo conto allora che ho perso la sensibilità fenotipica nel riconoscere l’aspetto tipicamente mediterraneo dei miei conterranei. Dopo 12 anni di lontananza, insomma, ho iniziato anche io a guardare gli altri calabresi come un estraneo. E a scambiare un colorito olivastro per un tratto razziale. È proprio vero: la razza non sta nei geni, ma negli occhi di chi guarda.

Vincenzo Romania

Ti potrebbe interessare

Visti da là
La rete non fa la democrazia
La vignetta spezzata
La massoneria a Cuba
La abbattono