L'acqua che fa male: l'accampamento allagato dei rifugiati siriani

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All’inizio di gennaio 2013, una tempesta eccezionale si abbatte sul Libano: le temperature scendono di diversi gradi sotto lo zero e la violenza dei temporali è impressionante. La nostra équipe parte in direzione della Bekaa per incontrare delle famiglie di rifugiati alloggiate in accampamenti di fortuna.

Abbiamo lasciato lo stradone principale poco prima dell’entrata di Bar Elias, e ci ritroviamo ora su una strada infangata con acqua dai due lati. Davanti a noi ci sono delle tende. In qualche minuto la nostra macchina è circondata. Uomini, donne e bambini gridano e agitano le mani per attirare la nostra attenzione. Scendiamo dalla macchina e facciamo qualche passo nel fango. La folla ci conduce all’interno dell’accampamento: si è formato un lago, le tende sono completamente inondate, e alcune di esse stanno crollando, mezze distrutte. Facciamo fatica a credere ai nostri occhi. Il fotografo ha tirato fuori la macchina e la gente insiste perché scatti delle fotografie: “Prendi quella tenda, io abitavo lì con la mia famiglia, guarda in che condizioni si trova ora.” All’interno delle tende, i materassi e le coperte galleggiano sull’acqua.

Poco a poco capiamo cos’è successo: i rifugiati sono stati sorpresi durante la notte scorsa dalla piena improvvisa. Una signora mi spiega a grandi gesti: “Io dormivo, mi sono svegliata bruscamente, tutto era bagnato! Ho preso il mio bambino e l’ho sollevato, era già fradicio, sarebbe potuto annegare!” Gli uomini hanno dato degli stivali di plastica ai miei due colleghi: con l’acqua alle ginocchia partono a fare un giro dell’accampamento. Io resto a parlare con un gruppetto di donne sotto una pioggia fine e glaciale che s’infila tra i nostri capelli e nei nostri vestiti. Ho freddo, e mi vergogno di aver freddo, con i miei vestiti molto più pesanti dei loro. Tutti parlano in contemporanea e gridano. Inizio a rendermi conto che siamo arrivati nel bel mezzo del dramma: queste persone sono ancora sotto choc a causa di ciò che è successo. Nessuno, tranne noi, è venuto a trovarli stamattina. Quelli che sono fuggiti dalle loro tende in piena notte si sono rifugiati in altre tende, relativamente risparmiate dall’inondazione. Non avevano quasi nulla, e hanno di nuovo perso tutto. Nei loro discorsi si mescolano lo sconforto, la rabbia e le suppliche.

Mi sento smarrita. Gli abbiamo spiegato il nostro lavoro: sanno che siamo lì per testimoniare della loro situazione, ma che non possiamo dargli nessun aiuto concreto. Lo sanno e lo capiscono, ma io, ancora una volta, provo vergogna. Le donne mi portano al riparo sotto una tenda al limite dell’accampamento. Tutto è bagnato lì dentro: le pareti, i materassi, i vestiti ammucchiati in un angolo. Il suolo è fangoso. I bambini, stretti gli uni contro gli altri, tremano. All’improvviso uno di loro, non più grande di sette anni, decide di fare un fuoco: raggruppa qualche scheggia di legno, un po’ di carta da giornale, e accende un fiammifero. Il fuoco dura poco, il suo fumo è pungente e l’atmosfera sotto la tenda diventa difficilmente respirabile, ma abbiamo tutti talmente freddo che ringraziamo il ragazzino di averci procurato qualche minuto di calore.

Due giorni più tardi torniamo all’accampamento. Il lago è sempre lì, e i rifugiati non hanno ancora ricevuto nessun aiuto. La gente ci accoglie con molta più calma. Andiamo a visitare una parte del campo che non avevamo visto la volta scorsa. Alcuni padri di famiglia ci aspettano: restano lì, umili e pazienti, e ognuno attende che il nostro piccolo gruppo sia pronto a venire dalla sua parte, per farci vedere la sua tenda e spiegarci la sua storia. Mi torna lo sconforto. Quell’uomo potrebbe essere mio padre, quell’altro mio nonno! Come può essere ridotto ad aspettare con calma che un gruppo di stranieri gli conceda un po’ d’attenzione?

E soprattutto, come può il mondo avere così poca attenzione per loro?

 

(racconto di E.L. del 08/01/2013 pubblicato su Focus on Syria)

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