Le mille e una rivolta: l’ora dei giovani arabi (diretta da Internazionale)

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Le rivolte di Egitto e Tunisia. Ma anche la stabilità (turbolenta) di Marocco, Algeria, Siria e Giordania. Cosa differenzia i regimi travolti dalle rivoluzioni dei gelsomini, dai regimi che ancora reggono? Interessantissimo l’incontro al cinema Apollo di Ferrara sull crisi arabe. Il mondo arabo è un cantiere in cui ci si gioca molto: democrazia, gestione della crisi, rapporto con l’Occidente. Ma tutto grazie a un solo e unico protagonista: una nuova generazione di giovani. Con tanti elementi da considerare: la natalità che si è bloccata, una religiosità che si ritrae nel privato, la fine del panarabismo.

Ad introdurre l’incontro Gian Paolo Calchi Novati, dell’Università di Pavia: “In Tunisia e in Egitto – ha esordito – si è costituito un asse improprio tra militari e manifestanti. Ora sono vittime della sindrome del governo provvisorio. Discorso a parte quello della Libia: non c’è stata una Tahrir square, è nata come guerra interna ed è mancata l’influenza di una potenza (come Francia nel caso della Tunisia e degli Usa nei confronti dell’Egitto) che operasse una moral suasion per il passaggio dei poteri. L’intervento militare libico ha ridimensionato l’importanze delle primavere arabe? Secondo me molto dipende da cosa succederà in Egitto”.

“Ci sono nuove fenomeni nella regione – dice Ziad Majed, politologo libanese, American University di Parigi – Benché il dispotismo nell’area fosse presente da decenni, cosa ha spinto il cambiamento ad innescarsi solo ora? Una generazione che non accetta più che un presidente designi suo figlio come successore. E’ il frutto anche delle conseguenze di una certa urbanizzazione del mondo arabo, della partecipazione delle donne, del diffondersi dei media su satellite e i social media. Nel caso della Tunisia e dell’Egitto avevamo la sensazione di essere di fronte a una bella favola. Ma in casi come Libia, Siria e Yemen c’è un rapporto più stretto tra regime e militari. Ci sono grandi differenze, soprattutto la non omogeneità della società. Questa primavera araba crea molte aspirazioni, molte speranze. Soprattutto siamo usciti dalla scelta tra islamici o regimi dispotici“.

“Finalmente questa parentesi si chiude – concorda Olivier Roy, politologo francese, istituto universitario europeo di Firenze -. Infatti i populisti europei negano la primavera araba per questo: non vogliono che lo spauracchio islamista scompaia. E’ in gioco tutto il rapporto tra il mondo arabo e l’Occidente. Ci sono tre fattori che ci fanno pensare che questo cambiamento sia irreversibile. Innanzitutto una generazione è nuova: nel mondo arabo c’è un crollo della natalità. Questa è l’ultima generazione numerosa. Si sposano più tardi, fanno meno figli. Sono colti e le donne pretendono gli stessi diritti. Parlano le lingue e usano internet. E’ una generazione che considera quella dei propri genitori come perdente. Si tratta di una generazione che non ha abbracciato le strutture patriarcali dei genitori. Il secondo elemento è la scomparsa della cultura olistica del panarabismo. Questa cultura politica è finita. I giovani vogliono una buona governance, non vogliono un leader carismatico. E’ una rivoluzione senza leader carismatici. Sono persone normali che sottolineano la loro normalità. E’ una normalità che non mobilita, e infatti in parlamento probabilmente l rappresentanza sarà più conservatrice. Terzo elemento l’islamismo: siamo usciti da una fase di re-islamizzazione della società araba. Com’è possibile che questo aumento dell’Islam sia avvenuto con l’aumento di richiesta di democrazia. Il punto è che le ideologie islamiste sono in crisi. I giovani hanno una nuova forma di religiosità, individualista. La giustificazione di chi porta il velo è questa: è una scelta mia, non lo impone l’Islam. Nessuno a più il dominio dell’Islam nel mondo arabo. Non bisogna pensare o capire il passaggio alla democrazia come una secolarizzazione della società. E’ l’autonomia del campo politico che si sta affermando. L’Islam è identità, cultura nazionale, non shaaria. Io rimango ottimista ma bisogna evitare i falsi problemi: non bisogna dire che senza secolarizzazione non ci sarà democrazia. Le due strade possono divergere“.

Issandr El Amrani, autore del sito The Arabist, si è concentrato sulla realtà del Marocco. “In Marocco è in atto una rivoluzione delle idee, embrionale e politica. Non è comparabile né con l’Egitto nè con la Libia. Innanzitutto perché è una monarchia: poi il re, Hassan II, è giovane, è al potere da solo dieci anni e gode di buona fiducia. Nel 1999 fa in Marocco credevamo di vivere una rivoluzione pacifica grazie all’avvento del nuovo re. Pensavamo che si aprisse una stagione di riforme. Dopo sei-sette anni di monarchia che si diceva riformista ma che in realtà non faceva nulla, c’è stato un avvio di reazione nella popolazione. I giornalisti che erano andati all’estero è ritornata attraverso il web, in rete. Dopo Tunisia e Egitto sono partiti movimenti politici che non si vedevano da 45 anni, poi con la guerra di Libia è subentrata la paura. E i marocchini ha deciso che non valeva la pena. C’è stata paura del caos, come in Siria. Ma la percezione di ciò che accade nella regione è cambiata. Non so se il Marocco è pronto. Il movimento durerà anni, servirà molto per trovare una nuova stabilità”.

Luca Barbieri

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