Malesia, arriva la polizia. Quando di indignarti non hai neanche il diritto

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Ci siamo messi in testa di partecipare alla protesta mondiale del 15 ottobre, in un modo o nell’altro.

Marcello ha scovato su internet un gruppo di persone che si sarebbe riunito il 15 sera a Merdeka Square, nel centro di K.L., proprio dove nel 1957 fu proclamata l’indipendenza della Malesia dall’Inghilterra. Una piazza gigantesca, che si apre nel distretto coloniale, eppure stretta da grattacieli di gruppi bancari, sempre più alti, sempre più soffocanti , e il palazzo del Sultano Abdul Samad.  

La “manifestazione” sarebbe iniziata alle 23:00, eppure alle 22:30 non riusciamo ancora a vedere nessuno. “Forse non sono più venuti”. “Massì, saranno stati così pochi che alla fine non sono più scesi” “Che si fa?” “Manifestiamo io e te, andiamo in giro per la piazza con le facce indignate”. Mentre passeggiamo nel buio del prato, il grido di una voce maschile “Asemblea, asemblea of acampados! The asemblea is starting!”.  

Li abbiamo trovati. Eccoli lì, saranno trenta, quaranta al massimo, seduti in cerchio, con le gambe incrociate, una ragazza di origine indiana in piedi a moderare la riunione. Ci sediamo in fondo ad ascoltare. Si chiamano “Occupy Dataran” e si riuniscono una volta alla settimana.  

“Elenchiamo i punti del giorno: cosa facciamo quando arriva la polizia? Proposte per cambiare il luogo di riunione.  L’economia mondiale. Dove vuole arrivare il nostro movimento?” “Siete d’accordo? Qualcuno ha qualcosa da aggiungere? Spostiamo il dibattito sull’economia all’ultimo punto?” Braccia tese e dita al cielo sfarfallanti, è il modo di dire sì i tutti gli indignados “Siamo d’accordo allora, l’economia passa all’ultimo punto”.  

Ma come l’economia all’ultimo punto? Ma che indignati sono? Marcello era in Placa Catalunya, a Barcellona, a manifestare con quei 20.000 acampados che hanno dato inizio al movimento, insieme a quelli di Placa del Sol di Madrid e resta quasi allibito. “Si vede che qui la crisi economica non è sentita come il problema principale”, mi dice sottovoce, mentre gli altri si alternano a intervenire e a valutare i modi migliori per reagire a un intervento della polizia.  Neanche il tempo di rendermene conto che dopo mezz’ora di riunione improvvisamente il gruppo inizia a sciogliersi, alcuni tirano fuori dal cilindro hukulele e didjeridu, altri fanno finta di ballare, altri si dividono in gruppetti.  

È arrivata la polizia. E allora? Quaranta persone che parlano pacificamente e muovono le dita al cielo che fastidio possono dare? Ci uniamo a uno dei gruppetti. In Malesia, ci spiegano, c’è una libertà tutta formale, ma informalmente non si può uscire dagli schemi. Dietro alla propaganda di una società sorridente, in crescita e integrativa di tutte le etnie, si nasconde la corruzione di un unico partito, al potere da cinquanta anni. Vince le elezioni grazie al “voto” dei morti e comprando le fasce deboli della società, interi villaggi di contadini. Un gruppo di più di tre persone che discute di argomenti sociali su suolo pubblico è considerato assemblea non autorizzata e si rischia il carcere. Iniziamo a capire il punto. “Quello che noi vogliamo è avere la possibilità di riunirci in piazza e discutere liberamente del nostro destino, reclamiamo la piazza come spazio aperto e democratico”.  

Il movimento è partito il 30 luglio scorso, quando un gruppo di malesiani ispirandosi agli acampados spagnoli ha deciso di trascorrere la notte per esplorare la possibilità di costruire un movimento dal basso, per una democrazia reale. Hanno anche un codice di condotta (rispetto, apertura, ascolto, inclusione), si riuniscono ogni settimana e ognuno di loro, a rotazione, ha il compito di moderare l’assemblea. Votano con i gesti delle mani, per non fare troppo rumore, seguendo il codice diffuso dalle piazze spagnole.  

“Io sono stato portato in commissariato per un articolo scritto sul giornalino scolastico”, ci racconta Nicolas, 17 anni e un’incredibile coscienza sociale “La parola Democrazia a scuola non viene neanche insegnata”. “Conosciamo tutti i poliziotti della città, sappiamo chi sono quelli con cui è possibile dialogare e quelli da cui si deve scappare via a gambe levate. Alcuni di loro si unicono a noi in borghese e passano le informazioni  agli altri agenti, così possono rintracciarci più facilmente”.  

Ci raccontano della protesta delle magliette gialle a luglio, organizzata dall’opposizione e da diverse Ong. In quell’occasione sono state arrestate 1.700 persone, respinte con i lacrimogeni, portate via con la forza.  

Mentre ascoltiamo i racconti di questi ragazzi un gruppo accanto al nostro canta in cerchio le stesse canzoni che abbiamo cantato per anni d’estate ai falò, ma con una luce negli occhi differente, con una voce che grida una voglia di libertà proibita, un speranza vibrante che si sente sulla pelle.  

Filmato: una ragazza suona la chitarra intonando “Knockin’ on Heaven’s door”  

Video: MVI_2250

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