Piccola odissea in Sud Sudan

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L’ala dell’aereo in rottami della pista di Raja ci passa sopra la testa, l’aereo, arrugginito e dimenticato, relitto di quando l’aeroporto funzionava ed il paese era ancora uno solo. In macchina: Io, Daniela, l’agronomo Ibrahim e l‘autista Faisal alla guida, dopo una mattinata caotica ci siamo imbarcati nel viaggio di ritorno da Raja a Wau, 320 kilometri di terra rossa e polvere, circa 6 ore di dossi, cunette e sobbalzi. Il viaggio procede al meglio, leggo un po’ di Kapuscinsky, racconti della guerra d’Angola su strade come le nostre, ma nel bel mezzo di una guerra civile con mitra e posti di blocco presidiati da soldati giovani, affamati e ubriachi. Un po’ lo invidio per la temerarietà e per aver raccontanto fatti eclatanti di una storia violenta ma lontana ed affascinante. Ammiro il coraggio e la pazzia nel voler raccontare guerre d’altri al rischio della propria vita. Noi, con il nostro fuoristrada bianco, superiamo agevolmente un vecchio e traballante camion carico di sacchi di mais oltre ogni immaginazione, camion ulteriormente appensantito da 7-8 persone sedute in cima ai sacchi, salutiamo con un rapido gesto della mano e procediamo per la nostra strada.

sud sudan desertoAvvistiamo un ponte e capiamo che per Ibrahim e Faisal arriva il momento della pausa pranzo, asida (praticamente polenta senza sale) e pesce di fiume, fresco. Io e Daniela abbiamo già mangiato i nostri panini coi felafel in macchina. Fa molto caldo, si suda, e ora che siamo fermi ancora di più. Davanti a noi un rettilineo di saliscendi di terra rossa lungo qualche chilometro, fuori tanto sole e un’eterna distesa d’alberi verde chiaro a fare da cornice al nostro viaggio, dietro di noi solo tanta polvere, è il culmine della stagione secca, quando la terra è assetata e gli alberi attendono impazientemente le prime piogge.

All’improvviso, un rumore strano, Faisal si ferma a controllare, abbiamo forato, rapidamente ci mettiamo in azione: Ibrahim ai bulloni, Faisal al crick  ed io alla ruota di scorta cambiamo la ruota e ripartiamo tranquillamente verso Wau. Ma la sfortuna è di nuovo in agguato, e dopo pochi chilometri di saliscendi impolverati siamo di nuovo fermi e perplessi a fissare un pneumatico sgonfio, quello anteriore destro, di nuovo. Il team si riattiva, ma questa volta dobbiamo prendere la seconda ruota di scorta sul tettuccio del Land Cruiser, perplessi ed un po’inquietati cambiamo di nuovo la ruota sapendo che è l’ultima che abbiamo e che se forassimo ancora saremmo bloccati, senza possibilita di telefonare e lontanissimi dal primo centro abitato. Io e Daniela ci guardiamo, preoccupati ed io inizo a pensare, ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va con l’auto e mi sembra che ad ogni sussulto l’auto cadrà in mille pezzi, lasciandoci appiedati in mezzo alle assolate colline che uniscono il Sud Sudan, il Sudan e la Repubblica Centroafricana, luoghi selvaggi ed inesplorati, in passato teatro d’azione del Lord Resistance Army di Joseph Kony, esercito ribelle dai tratti mistico-religiosi, spauracchio di vari governi dell’Africa centrale. E cosi succede l’irreparabile, terza foratura, questa volta su un tratto in discesa dove Faisal fa fatica a controllare l’auto e rischiamo di sbandare, peggiorando ulteriormente la situazione. Silenzio. Il silenzio di chi non sa cosa fare, dire o pensare. Scendiamo tutti e 4 dal’auto esterrefatti, increduli e confusi. Prendo il telefono satellitare ma essendosi acceso nello zaino ha la batteria quasi completamente scarica. La tensione sale e, fra le mosche, le api selvatiche e le mosche tze tze che infestano questa zona riflettere è davvero difficile, non c’è soluzione. Silenzio e domande senza risposta. La disperazione di porta a provare e collegare un caricabatteria per Nokia alimentato con l’accendisigari dell’auto con il caricabatteria con la presa a muro del telefono satellitare, speranza vana e piuttosto frustrante durata pochi minuti.

Dalla striscia rossa che scompare dietro la collina spunta improvvisamente il vecchio, dondolante e sovraccarico camion che trasporta mais e persone che abbiamo superato qualche chilometro prima. In 30 secondi decido di dividere il team, io e Daniela prendiamo un passaggio per andare a chiedere aiuto, Ibrahim e Faisal si fermano con l’auto. Spiace andare via, soprattutto pensando che trascorreranno li la notte in mezzo ad api e animali selvatici ma anche a rischio di rapina da parte dell’animale piu’ pericoloso, quello a due gambe. Io e Daniela ci arrampichiamo sull’altissimo camion e ci sediamo sui sacchi di mais aggrappandoci dove possibile.

I nostri compagni di viaggio sono molto diversi fra loro. Il primo alla mia sinistra è un soldato, disarmato, in tuta mimetica verde e lucidi anfibi neri, guarda frequentemente me e Daniela e ride, da solo. Dietro di lui, una signora anziana, piccola, magra, rinsecchita, avvolta nei tipici drappi colorati per ripararsi dal vento e dalla polvere. Parla ad intervalli, a volte fitto fitto a volte ripetendo la stessa parola a voce alta, non capisco ma lei sembra divertita. Gli altri passeggeri sono giovani con maglie dell’Arsenal e del Manchester United, a pensarci bene, questo camion è assai rappresentativo del Sud Sudan: guerra, calcio e memoria tradizionale.

Il vento soffia nei capelli in cima al camion barcollante, proviamo a vedere il lato positivo della situazione. Ridiamo, pensando a quante regole stiamo infrangendo e consolandoci pensando che è un’esperienza unica e probabilmente irripetibile. Il sole tramonta, sono le 7.30 di queste brevi sere africane: le palme, le acacie e i manghi all’orizzonte diventano sagome nere, in lontananza si ergono colonne di fumi, i contadini preparano così i campi per l’aratura, bimbi e bimbe magri e scalzi, con vestiti usurati e strappati portano grossi contenitori d’acqua sulla testa, oppure fratellini infagottati sulla schiena. L’aria si fa fresca ed è quasi subito notte, cala il buio su questa calda, sudata, impolverata ed imprevedibile giornata africana. Scoccano le 8, scatta il coprifuoco per movimenti dentro e fuori dalle città, il Sud Sudan è pur sempre un paese in guerra e questo è uno dei modi per controllare movimenti di ribelli, truppe ed esercito. Nel buio intravediamo il posto di blocco, fari spenti per comunicare la non aggressività del nostro convoglio. “Tutti giù” ci dicono, “non si puo procedere oltre, questa notte dormirete qua, si riparte domani mattina”. Nel buio, senza rete telefonica, non una luce, non una casa, solo sagome di baracche e minacciosi soldati del’SPLA che ci fissano severi. Alcuni parlano fra loro in arabo, non capiamo, ma sembrano rigidi, un soldato, visibilmente più ubriaco degli altri, sentendo Daniela lamentarsi e piagnucolare le aggredisce verbalmente. Controllo degli zaini, torce puntate in faccia e l’ansia di dover trascorrere la notte all’addiaccio, senz’ acqua, letto e cibo in compagnia di una decina di soldati dell’SPLA armati di sbornia e kalashnikov, un’accoppiata poco rassicurante.  Siamo disperati ma ci salva un soldato particolarmente comprensivo, impietositosi dalla nostra situazione (e dalla bugia che gli raccontiamo dicendogli che Daniela sta molto male). Nel più completo buio attraversiamo lo spazio fra le due sbarre del posto di blocco, il respiro affannoso di Daniela si mescola con i miei pensieri che si affollanno nel vano tentativo di trovare una soluzione. Mantengo la calma, proviamo a trovare una macchina per l’ “ammalata” Daniela, ci dicono di aspettare, non si sa ne chi ne cosa, ma aspettiamo. Il soldato, di cui vediamo solo i denti, gli occhi e la canottiera in quanto tutti bianchi e in risalto sulla pelle nera, ci offre due semi-fresche bottiglie d’acqua, un gesto semplice ma spontaneo, generoso e tenero, soprattutto in quella situazione.  Senza capire una parola delle discussioni fra soldati e autista torniamo indietro nel piu completo buio, la ghiaia sotto i piedi, il corpo diventa pesante ma le energie non mancano grazie a tutta l’adrenalina che abbiamo in circolo. Arriva il segnale di mobilitarsi, grazie a Daniela, tutto il camion può ripartire, mamme, bambini, vecchi e soldati risalgono a bordo e lentamente avanziamo nel buio, rotto solo dai fari deboli del vecchio camion azzurrino e dondolante.

All’improvviso la rete telefonica ritorna e ci permette di chimare aiuto da Wau, dove Chaplain il logista e altri nostri colleghi sono in pensiero per noi. Sono ormai le 10 e anche il coprifuoco all’interno della città è scattato, in teoria nessuna automobile può muoversi e nessun individuo può essere in strada a quell’ora, tranne i soldati e i poliziotti incaricati di far rispettare il coprifuoco. Dopo varie telefonate e una certa confusione dovuta alla situazione inaspettata sappiamo che la missione di salvataggio ci sta venendo in contro, ma dovra superare vari posti di blocco, e noi anche. Siamo di nuovo fermi, tutti giu, di nuovo quella frase scioccante: dormirete qui stanotte, soldati diversi, stessa scena, sguardi severi, dialoghi in arabo, soldati ubriachi e armati che ci perquisiscono, svuotare gli zaini un’altra volta, aliti di alcol e parole dure che ci fanno pensare al peggio. Intanto l’attesa dilata il tempo ma alla fine, la bianca auto guidata dal nostro “salvatore” Chaplain compare come un fantasma provvidenziale nella notte di carbone. Dopo una breve discussione, ripartiamo, ma dopo soli 300 metri un posto di blocco volante di ferma e ci chiede spiagazioni, non ci credono, non vogliono lasciarci passare, di nuovo quella frase: “Dormite qui e domani mattina ripartite”, questa volta la situazione e’ meno drammatica, le luci di Wau sono in vista e siamo su un’auto “amica” protetti dallo “zio” Chaplain, un buon uomo alto e lungo, dallo sguardo lucido e dolce che a voltre si perde nei ritmi forsennati delle nostre pazze giornate in ufficio.

Alla fine, dopo 15 minuti di contrattazioni e comunicazioni via radio col suo superiore, anche questo posto di blocco ci lascia proseguire, ci sentiamo al sicuro, ma la strada di casa è ancora lunga. Wau, dopo le 10 di sera è spezzata in 2 all’altezza del ponte che separa la città ”vecchia” dalla nuova zona di recente crezione dove la citta si è espansa negli ultimi anni. L’ultimo posto di blocco, torce in faccia anche qua, perquisizione e domande su dove andiamo e che facciamo, rispondiamo con la solita bugia: Daniela sta male e dobbiamo portarla a casa, veniamo da Raja, lavoriamo li a progetti di sviluppo, per favore lasciateci passare. Un altro quarto d’ora di sofferenza, sopportazione e trattative ma alla fine ci lasciano andare. Pensiamo sia fatta, non ci sono più posti di blocco fra il ponte e casa ma all’improvviso in mezzo alla strada, si materializzano 3 fantasmi col kalashnikov a tracolla, 3 soldati che quasi investiamo visto che ci aspettavano in piedi in mezzo alla strada. Dopo altri 5 minuti di spiegazioni, visto che siamo oltre il coprifuoco ci chiedono una piccola “tassa” per poter passare, una tassa davvero esorbitante: 10 pound sud sudanesi, circa 2 euro e 50, il costo di 4 pomodori, per capirci. Vediamo casa ormai, è a circa 300 metri, ora davvero niente di può più fermare, ci assale l’euforia e l’allegria per avercela fatta. Mi sento un po’ un sopravvissuto e penso dentro di me che ormai non ho niente da invidiare a Kapuscinsky, ho affrontato con successo vari posti di blocco, perquisizioni e intimidazioni verbali. Ho sentito il brivido della minaccia e della paura, per me e per Daniela, che in fondo, a Raja, poteva fare a meno di venirci e mi aveva accompagnato in questo inaspettatamente travagliato viaggio di lavoro.

Il cancello azzurrino di casa ACTED si apre ed entriamo in casa. Chaplain dovrà dormire da noi perche a quell’ora non puo più muoversi, per fortuna abbiamo stanze libere, gli do saponetta e asciugamano e gli auguro la buonanotte. Ora sognamo solo una bella doccia rinfrescante e il letto, ma l’ultima sorpresa della giornata è che in casa non c’è acqua, ma siamo talmente sporchi che non ce la sentiamo di andare a dormire con il sudore, la polvere e lo sporco di un giorno di viaggio. Addocchiamo le bottiglie d’acqua minerale nell’angolo, svuotiamo varie dozzine di bottigliette nel secchio di plastica blu e cosi ci facciamo la più costosa doccia della storia. Una bottiglia d’acqua da 600 centilitri qui costa quasi un euro, come minimo avremo usato 20 bottiglie, 20 euro per una doccia. Dopo uno spuntino rapidamente messo insime con quello che c’era in frigo ce ne andiamo a letto, stanchi, frustrati ma anche eccitati dall’avventura appena finita nei migliori dei modi. Inoltre, io, personalmente, da oggi mi sento anche un po’ più vicino a Kapuscinsky.

Stefano Battain

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