Pugni interrogativi (l'ostello e l'Australia)

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Premessa dovuta: io adoro gli ostelli.

Li amo perché sono socializzazione in muratura, sono porte, cancelli, stargate d’ingresso a nuove conoscenze, culture e alle persone che ne sono veicolo.

Amo gli ostelli perché ritengo che permettano di esperire il lato positivo – libertario? – della naja: lo scambio e il confronto quotidiano tra pari. Esperienza che io, uno dei primi salvati dalla leva obbligatoria, un po’ invidio alle generazioni che di poco mi hanno preceduto.

Li amo poi perché sono ambiente fertile per la semina e lo sviluppo di rapporti e connessioni.

Li – dannatamente amo per questi e numerosi altri motivi che con questo post, però, non hanno assolutamente nulla a che fare.

Detto ciò, si apra il sipario:

 

Tratto da una storia vera. 

Arrivo in Australia ed è la tragedia economica.

La vita costa molto. Molto di più di quanto parecchi credano arrivando qui. O quantomeno molto più di quanto credevo io. Gli euro calano, i dollari si manifestano solo preceduti dal segno meno. Poi questa nazione non ha la faccia che mi aspettavo, e ricalibrare le aspettative richiede sempre tempo, sforzo e una certa dose di shock.In più scoprire d’aver decisamente sopravvalutato la fluenza del mio inglese è un colpaccio.

Storie di normale migrazione, insomma.

Il momento peggiore dell’essere nuovo però, l’archetipo del malessere esistenziale da sindrome dello straniero, si configura per me in un momento particolare: il primo giorno in un ostello nuovo di una nuova città. Me lo vivo come il primo giorno di scuola.

O di guerra.

E’ che tutto a un tratto ti trovi buttata addosso un’enorme dose di sconosciuto. Tutta assieme. Incudini di dubbio scaricate sulla schiena, incertezze esplosive sparate ad altezza d’uomo. Pugni interrogativi.

Ma il viaggiatore uso ad attraversar terre lontane dovrebbe trovarsi a suo agio con l’ignoto, vero? No.

Segue che, applicando processi standard sedimentati in profondità tra le circonvoluzioni, il cervello mette in atto una qualche strategia per mettersi al riparo da questo enorme “cos’è?” che gli frana addosso.

Il mio, di cervello, si mette sulla difensiva.

E lo fa nel modo peggiore.

Mi guardo attorno, scruto volti sconosciuti e sinceramente sembrano un po’ tutte facce da stronzi; facce che chiacchierano a coppie o capannelli nel loro inglese DOC (o almeno tale pare: la soggezione linguistica fa parte dello schema) e realizzo d’essere, semplicemente, spacciato. Condannato alla solitudine eterna, inchiodato alla gogna della pubblica indifferenza. Per i tempi dei tempi dei tempi.

Nei corridoi striscio lungo i muri come un’ombra, non più essere umano ma solo guscio imbottito di autocommiserazione e sconforto; sono un naufrago alla deriva su uno sgangherato io in mezzo ad una tempesta di umana incomprensione. Una storia di miseria. Penso alle battute bellissime che farei con i miei amici stralontani e sorrido da solo. Mi mancano tutti. Pagherei per 5 minuti di pezza da parte di gente con cui a casa non scambierei due sms. E, come se non bastasse, continuo a comprare acqua gassata per errore.

E’ più o meno qui che realizzo che bisogna reagire.

Infatti poi le cose in genere si sistemano: si trova un posto in cui fermarsi, si creano relazioni, la lingua si scioglie e anche un lavoro accettabile arriva (sebbene all’inizio si sia propensi ad accettar di tutto, anche l’impiego più ridicolo e umiliante, tipo uomo sandwich, venditore di bibbie o il ricercatore universitario, per dire).

E l’esperienza migrante prende lentamente forma.

Ma, questa, è un’altra storia.

Eliano Ricci

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