Se per i giornali le vite si dividono tra regolari e irregolari

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Questa mattina un articolo apparso sulla versione online de il Mattino di Padova, titolava: “Auto esce di strada a Piacenza d’Adige: muore a 18 anni. La vittima è Yassin Soudassi, marocchino regolare di 18 anni”.

Leggo quasi distrattamente lo stringato articolo che segue, ma resto fortemente colpito dall’aggettivo “regolare”. Mi chiedo a cosa serva, ad un giornalista, ad una redazione e ai suoi lettori, sottolineare lo status giuridico di un ragazzo appena maggiorenne che perde la vita in un incidente stradale. La regolarità del suo titolo di soggiorno lo rende forse vittima meritevole di maggiore compassione da parte nostra? Cosa avremmo dovuto pensare se il giovane che ha perso la vita fosse stato descritto come un “irregolare” o peggio ancora come un “clandestino”? Avremmo immaginato forse che la sua condizione lo rendesse propenso al rischio, insensibile al pericolo, portatore insano e indesiderato di insicurezza sulle nostre strade e nelle nostre città? Avremmo ad esempio riflettuto sul fatto che un 18enne che nasce in Italia ha il 32% di possibilità di non trovare lavoro e diventare irregolare, prima ancora di ottenere la cittadinanza? Ma, soprattutto, a cosa serve, ad un giornalista, sottolineare lo status giuridico di un immigrato quando questa condizione non è pertinente agli eventi? Chi si mette la guida resta pur sempre e soprattutto un conducente di un’autovettura. Un tale tipo di rappresentazione, al contrario, distorce l’opinione pubblica e costringe il lettore, dopo tanti anni, a continuare a considerare gli stranieri nati fuori dalla Comunità Europea, come degli ospiti, il cui comportamento viene tenuto continuamente sotto controllo e valutazione da parte della comunità degli autoctoni. E stimola un conflitto sociale, il cui unico benefit è qualche copia e qualche contatto online in più, per la testata.

Vincenzo Romania

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