Tutto quello che non vi hanno mai detto sull'emigrare in Australia

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Non che questa non sia più la terra delle opportunità, la nuova frontiera dell’immigrazione di prima classe (ché la boat people, quella non la vogliamo mica), non che tra i discorsi tra viaggiatori non faccia sempre capolino la famosa frase “questa è la nuova America”. E tuttavia.  La prima cosa che vi viene detta quando vi si spiega il benessere economico di questa nazione è che l’Australia deve la sua fortuna al suo suolo, ed è vero: durante la prima metà dell’ottocento cominciò la corsa all’oro, e un secolo dopo vennero scoperti i giacimenti di materiali ferrosi che costituiscono attualmente la maggiore economica del paese. La più grande miniera del mondo. Il problema è che l’Australia sta anche e soprattutto minando (al)le risorse rinnovabili, sta cioè sfruttando le sue foreste, le sue acque e il suo suolo a un ritmo che eccede quello necessario a tali risorse per rinnovarsi, come se queste fossero un filone d’oro da estrarre il più velocemente possibile. Ciò ha a che fare, come vedremo, con una mancanza di lungimiranza tecnica e con una serie di cattive decisioni politiche, ma anche con una persistenza di un sistema di valori non più di beneficio alla società australiana.

Pensando alla conformazione geologica del paese si tende a pensare che quello dell’acqua, ovvero la sua mancanza, sia il principale problema a livello ambientale. È vero il contrario: in parecchi casi l’eccesso di acqua ha portato al depauperamento del suolo. Si può cominciare a capire questa cosa a livello intuitivo facendo un giro nei supermercati australiani. I prezzi di frutta e verdura hanno raggiunto livelli esorbitanti, oltre la media in ogni caso elevatissima del costo della vita. La verità è che nonostante l’Australia ami considerarsi un paese fondamentalmente rurale – con la sua epopea di drovers e rodei e pascoli e campi a perdita d’occhio – il suolo australiano, vecchio di milioni di anni, non è adatto all’agricoltura. Non lo è mai stato, nemmeno quando i primi coloni si imbatterono in un ciclo di anni prosperi dal punto di vista climatico, con frequenti piogge ed estati non troppo calde, nonché una fitta vegetazione. I nutrienti del suolo erano in realtà già stati spazzati via nel corso delle  precedenti ere geologiche, e non si sono mai rigenerati. Per ottenere un profitto minimo, è stato necessario ricorrere a fertilizzanti anche nei luoghi più propizi all’agricoltura (come il cosiddetto wheat belt nel Sud Western Australia, in Sud Australia e in parte del Queensland), con il risultato di accelerare il processo di decadimento del suolo. Questa spesa extra da parte dei produttori (in manodopera, carburante, fertilizzanti e macchinari) si riversa sui costi a carico del singolo cittadino, per il quale ormai è più conveniente comprare arance importate oltreoceano piuttosto che quelle prodotte in casa, nonostante il costo aggiunto del trasporto.

Ecco che i villaggi abbandonati nell’outback, avamposti romantici dei primi pionieri, assumono una connotazione poco incoraggiante: dopo aver rimosso gli alberi per fare spazio alle coltivazioni, i primi coloni si accorsero del lento ritmo di rigenerazione; la terra non durava che pochi anni, e allora la si sfruttava intensamente e si andava altrove. Spesso era il governo australiano a imporre ai contadini di fare piazza pulita della vegetazione nativa, con un incentivo economico sotto forma di deduzione fiscale. Oggi l’Australia figura tra i primi cinque paesi al mondo dove la deforestazione avanza a ritmi non sostenibili. Coltivazione intensa, bancarotta e abbandono sono le fasi successive e terminali del ciclo vitale di un suolo il cui livello di salinità cresce di anno in anno. In questo contesto è spiegabile l’effetto paradossalmente negativo dell’acqua in due circostanze. Nella prima, aree perennemente asciutte sono convertite all’agricoltura tramite un’irrigazione diffusa, la quale satura il suolo ben oltre le sue capacità di ritenzione. L’acqua percola fino al sottosuolo dove la concentrazione di sale è maggiore, e quest’ultimo riesce a venire in superficie tramite questo canale che si è creato. Nel secondo caso, in aree sottoposte a cicli di pioggia affidabili la vegetazione è ormai scomparsa, e con essa le radici in grado di ritenere l’acqua in eccesso, con lo stesso dannoso effetto visto prima, con l’unica differenza che in questo caso è virtualmente impossibile ristabilire un equilibrio naturale. In pratica l’acqua è ancora abbastanza economica da permettere una irrigazione indiscriminata, ma non ve n’è a sufficienza per spazzare via i resti di sale, il cui effetto sul suolo è paragonabile a quello di una siccità naturale.

Gli australiani tengono ai loro animali

Quando i coloni britannici arrivarono con l’intenzione di rimanere, notarono che la popolazione Aborigena non aveva addomesticato, nei suoi 40.000 anni di storia, nessuna specie animale, continuando così nella propria esistenza da cacciatori – raccoglitori. Ancora oggi, le specie animali che decisero di importare hanno profonde conseguenze sull’ecosistema australiano. Le pecore, ad esempio, la cui lana è stata per oltre un secolo uno dei prodotti di punta dell’esportazione australiana, hanno contribuito al depauperamento del suolo, anche perché spesso, per retribuire la terra sovracapitalizzata, si praticava il pascolo ad alta densità. Attualmente la maggior parte della terra produttiva continua ad essere allocata al pascolo degli agnelli. E non sono solo gli animali a rimanere ma, come si diceva, anche l’immagine che dipinge l’Australia come un paese rurale fatica a sbiadire. Nonostante il 70% dei suoi abitanti risieda nelle cinque grandi città, ad ogni elezione politica viene dato un peso ingiustificato agli elettori rurali, e le politiche di finanziamento pubblico conferiscono a queste imprese anti(economiche) una parvenza di produttività e sostenibilità che non si darebbe se questo settore fosse lasciato alle sue sole forze.

Ma se la presenza degli agnelli è stata, almeno per qualche tempo, economicamente sostenibile o addirittura redditizia, lo stesso non può dirsi di altre specie animali importate per mere questioni socio – culturali. Non è chiaro se furono le volpi ad essere introdotte per prima, in modo tale da permettere di praticare la caccia di vittoriana memoria, e successivamente i conigli affinché fungessero da preda alle prime, o se viceversa furono i conigli ad essere introdotti per abbellire il paesaggio rurale e le volpi in seconda battuta per controllarli. In ogni caso, il disastro ambientale ha prodotto danni inestimabili: molti mammiferi nativi sono ormai estinti, e più di metà della terra disponibile per il pascolo di mucche e agnelli è degradata. Ma il disastro più grande è in attesa di esplodere: le cane toads, una specie di rospo introdotto negli anni ’60 dal Sudamerica allo scopo di combattere gli insetti che infestavano le piantagioni di canne da zucchero, hanno fallito nel loro scopo e si sono riprodotte a un ritmo esponenziale. Esse sottraggono cibo ai rettili nativi e sono velenose per i loro predatori. Un esemplare femmina rilascia circa 60.000 uova all’anno. Hanno ora raggiunto lo Stato del Western Australia dopo aver attraversato il deserto del Nullarbor dal Queensland.

Buoi dei paesi loro

Nella scena finale del film Australia, una colossale mandria di mucche arriva finalmente a una Darwin ancora scossa dai bombardamenti giapponesi, dopo aver attraversato gli altipiani del Kimberley. Le mucche saranno poi successivamente imbarcate per raggiungere mercati oltreoceano. Ciò succede ancora oggi, con alcune variabili di non poco conto. Se all’inizio del 2004 l’Australia aveva approfittato dello scoppio dell’epidemia della mucca pazza negli Stati Uniti per rimpiazzare quest’ultimo come principale esportatore di carne pregiata verso il Giappone, sempre più frequenti sono ora i casi in cui il cosiddetto live export – necessario perché in Australia non ci sono abbastanza stabilimenti per procedere all’abbattimento degli animali – viene limitato. È recente il caso del blocco delle esportazioni verso degli stabilimenti egiziani al  seguito della rivelazione di maltrattamenti subiti dagli animali e delle pessime condizioni igieniche.

Questa notizia ha avuto la ribalta della prima serata, ma ciò che l’informazione ha mancato di raccontare sono le centinaia di capi di bestiame abbandonate dai loro allevatori, a causa del crollo vertiginoso del loro prezzo sui mercati internazionali. I problemi che l’industria deve affrontare per contrastare questa crisi dei prezzi sono molteplici e seri: l’inarrestabile rafforzamento del dollaro australiano a seguito del boom minerario va a detrimento delle esportazioni, e un mercato liberalizzato come quello vigente è penalizzato rispetto a quello di Stati Uniti e Brasile, dove più alte sovvenzioni sono elargite dal governo. Ma anche qualora si attuassero politiche economiche diverse, resterebbe il problema ultimo di una siccità che impone costi altissimi ai produttori (siccità che, ripetiamo, è la norma nell’ecosistema australiano  e la cui assenza ai tempi dell’insediamento aveva fuorviato i pionieri nel credere che questa fosse terra adatta all’agricoltura). In ultimo, se si considera che le mucche emettono metano, contribuendo così all’allargamento del buco dell’ozono già gravissimo in Australia, il settore potrebbe essere sottoposto a tassazioni penalizzanti così come è avvenuto nel settore minerario con la tanto avversata carbon tax (la quale varrà – probabilmente –  la mancata rielezione dell’attuale governo laburista il prossimo settembre). Come si spiega, allora, il fatto che l’Australia rimane il secondo esportatore di carne al mondo dopo il Brasile?

Immigrazione e incerte identità

Per rispondere a questa domanda, bisogna tenere presente che un continente più grande dell’Europa ha la stessa popolazione di una qualunque periferia del vecchio continente. Con un mercato interno così ristretto, il grosso della produzione di carne, non grandissima in termini assoluti, viene assorbito dalle esportazioni. Non si sbaglia se si dice che il declino di tale mercato è già iniziato, e che seguirà le stesse sorti di quello della lana. Come detto, oggi la principale fonte di ricchezza, oltre al turismo, sono i giacimenti minerari. I paesi asiatici, con in testa Taiwan, Giappone e Corea del Sud, sono i principali importatori di materiali ferrosi. In questa traiettoria economica è possibile leggere il lento ma inesorabile spostamento da un asse di valori importato dalla tradizione britannica, incompatibile con le caratteristiche proprie dell’ecosistema australiano, a uno più vicino al continente asiatico di cui l’Australia è, in ultima istanza, parte integrante. La ripercussione sulle politiche migratorie è evidente.

Se dismettere i valori dell’ondata immigratoria primigenia è tabù sul piano teorico, dal punto di vista pratico è terminata da oltre un ventennio la politica della White Australia, che limitava fortemente l’immigrazione che non fosse strettamente europea. All’indomani dei bombardamenti giapponesi nacque la convinzione che il paese fosse sottopopolato, e che bisognasse aumentare la popolazione al fine di emergere come potenza mondiale. Nonostante due secoli di immigrazione – prima britannica, poi europea, infine asiatica – l’Australia rimane sottopopolata, con un tasso di crescita fermo allo 0.5% annuo, data la quota di immigrazione sempre ferma a 100.000 ingressi. In realtà l’alto stile di vita australiano non potrebbe sostenere una crescita maggiore. Il recente raggiungimento di quota 23 milioni ha riaperto il dibattito sul futuro del paese. Si prospettavano scenari in cui, tra non molti anni, il paese potrà finalmente vantare una popolazione doppia rispetto a quella attuale, e coronare così la propria ambizione naturale di cominciare a competere con paesi più popolosi.

La realtà è che l’Australia non solo non è in grado di supportare tassi di crescita maggiori ma, stando così le cose, l’attuale economia non riuscirà a sostenere lo stile di vita della presente popolazione. In teoria, ciò non andrebbe a detrimento dell’ambizione di essere più rilevante a livello mondiale, e non più soltanto la lucky country che prospera in beata solitudine. Israele, Singapore, i Paesi Scandinavi – solo per menzionarne alcuni – figurano tra i paesi all’avanguardia in molti settori nonostante basse densità abitative. Il problema è che in tutti questi anni l’Australia ha preferito minare le sue risorse naturali, ha preferito esportarle verso paesi con know-how adatto per trasformare tali materiali nei prodotti di cui la nuova classe media vuole fruire, piuttosto che sviluppare i talenti e il pensiero critico necessari non solo a una rivoluzione culturale, ma in ultima istanza a uno sviluppo economico promettente. Due di questi filoni, come abbiamo visto, sono già esauriti o sono in procinto di esaurirsi: lana e carne difficilmente riusciranno a competere per lungo tempo ancora sul mercato globale. Dei giacimenti minerari per ora non si prevede un esaurimento; alcuni dicono che il picco non si avrà che tra vent’anni. Ma ci sarà.

Il futuro alle spalle

Ma le cose stanno cambiando, e in meglio. Fino a trent’anni fa nessun contadino australiano avrebbe ammesso apertamente queste cose, mentre ora essi sono la fonte – tra le altre –  delle cose dette finora. Il governo non incentiva più la distruzione della vegetazione nativa ma impone anzi ai contadini un obbligo di salvaguardia, mentre l’opinione pubblica non manca di far sentire la propria voce, spesso esercitando una efficace azione di lobbying, contro la prospettiva di scelte che possano danneggiare il fragile ecosistema australiano. Soprattutto, sempre di più si va affermando un tipo di produzione biologica che rappresenta un valore aggiunto in un mercato globalizzato in cui la quantità va a scapito della qualità. Il mercato dei vini non conosce crisi, e con esso si è evoluta una delle reti più estese al mondo di organic farming. I contadini risparmiano sui costi di manodopera anche permettendo alle persone di fare volontariato, in uno scambio in cui la manodopera viene servita in cambio di consapevolezza.

In molti avranno pensato che forse non è proprio il caso di emigrare in Australia. La verità è che invece questo è il momento migliore. Tralasciando per un attimo le principali considerazioni economiche (l’Australia è stata solo sfiorata dalla crisi europea e dalle sue misure di austerità, impensabili qui), questo è un paese in cui la multi-culturalità tanto temuta si è trasformata in vera e propria inter-culturalità, dove cioè il rapporto tra le diverse culture e tradizioni che la popolano è fluido e vitale, e non costringe fasce della popolazione a ghettizzarsi. Inoltre – e questo è il motivo che continuerà a fare da traino – l’Australia ha bisogno di persone qualificate. La scelta dell’attuale governo di aumentare i finanziamenti alla scuola secondaria operando tagli all’istruzione universitaria ha lasciato perplessi in molti. La cosa certa è l’attuale benessere economico non è sostenibile e non durerà a lungo, quindi tanto vale approfittarne adesso. Chissà, dopo aver provato per due secoli ad essere la nazione rurale che non è mai potuta essere, l’Australia sarà la prima a fare esperienza di un sostanziale downgrading di prospettive di benessere economico nel contesto di una necessaria auto sostenibilità di lungo periodo. Nel lungo periodo, se non siamo tutti morti, l’Australia continuerà ad avere bisogno di voi. 

Alessandro Vignale

 Sull’Australia leggi:

I lavori miglioredel mondo in Australia

– Trovare lavoro in Australia, curriculum

Il blog di Austrilaria

The downunder report

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