Si muore senza conquistare Abyei

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Ok, sfumata la possibilità di trovare posto sull’aereo del World Food Program, l’unica possibilità rimane quella di partire in macchina. Il viaggio da Juba a Yambio è come un volo intercontinentale. Si punta verso ovest, estremamente verso ovest, fino a che il Sud Sudan non si trasforma, si addolcisce, rinfresca e quasi diventa Congo. Durante il tragitto il tempo smette di esistere, le ore si accavallano, i paesaggi si trasformano e poi si trasformano ancora, la steppa arida si fa coltivata, compaiono i primi alberi di mango, poi scompaiono, qualche acquitrino, un canneto, un bosco di alberi di teck allineati artificialmente. Un villaggio, una cittadina, un incrocio surreale che indica l’Uganda, verso sud est. La strada è una pista rossa che si mantiene buona per quasi cinque ore, poi soffre e sparisce tra le buche per ricomparire un paio d’ore più avanti. Misurare gli spostamenti in termini di spazio non ha senso, il tempo è l’unico riferimento che rimane, e ad un certo punto smette di trascorrere.

L’unica cosa che ti può salvare in un viaggio del genere è avere un buon autista. Noi avevamo Stephen, un personaggio concentrato, silenzioso, intento nel suo ruolo di estrema responsabilità. Tutto sarebbe andato per il meglio, anche perchè Stephen è il cugino di John, il nostro autista di Yirol che ci aveva portati sani e salvi attraverso una boscaglia popolata di leopardi, iene e banditi senza scrupoli. Penso a Jhon e ai suoi cento fratelli, un giorno dovrò chiedergli quanti cugini ha.

Stephen per tenersi sveglio mette su un po’ di musica. Recupera dal cruscotto una cassetta impolverata e risveglia la voce accattivante di una donna che canta una litania in lingua dinka, ogni tanto si intuisce un ritornello. Poi la cassetta finisce, Stephen la gira e la voce di donna ricomincia, e così mentre attraversiamo tutto il Central Equatoria e il Western Equatoria. La cassetta finisce, lui la gira e con una certa soddisfazione la donna ricomincia a cantare. L’unica parola che capisco è Abyei.

L’area di Abyei e l’omonima città sono zona contesa, in bilico tra nord e sud del Sudan, simbolo di uno scontro che sembra non aver mai fine, dove guerriglie ed arbitrati internazionali non sono ancora riusciti a stabilire il prevalere di una forza sull’altra. Nel corso degli accordi di pace del 2005 alla zona è stato conferito uno speciale status amministrativo che ha contribuito all’indefinitezza della sua posizione e favorito le rivendicazioni dei due contendenti. La popolazione della zona è prevalentemente dinka, ed il legame morale e storico con il Sud è particolarmente sentito da questa popolazione di pastori guerrieri che per decenni di guerra civile è rimasta in allerta nella boscaglia.

 

Ad un certo punto qualcuno per distrarsi dal torpore rompe l’incantesimo del silenzio e chiede a Stephen se conosce la strada, se è mai stato da quelle parti. Domande generiche per distrarsi dalla monotonia della polvere e dal sole. “Ho percorso tutte queste zone da bambino, a piedi, quando facevo la staffetta”. Rimaniamo in attesa che continui a raccontare, non sapremmo come chiedergli di dirci di più. “Dovevo portare i messaggi tra un campo e l’altro, durante la guerra. Ma non seguivo la strada, era pericoloso, me ne andavo nascosto nella boscaglia. Camminavo per settimane da solo, evitando i centri abitati, mangiavo qualche piccolo animale che riuscivo a cacciare da solo, ma in qualche villaggio sicuro mi davano ospitalità. Poi la guerra è finita e ho iniziato a far l’autista. La guerra è finita, a parte ad Abyei…” La sua voce si mescola con quella della donna che canta in sottofondo.

“A proposito, Stephen, di cosa parla la canzone?”. Lui fa una pausa, serio, “Abbiamo tre possibilità: lottare per conquistare Abiey, oppure no, oppure morire combattendo, senza prendere Abyei”. E che cosa succede nella canzone? “Si muore senza conquistare Abyei”. Ma perché? Perché questa è la morale della canzone? Lui sorride continuando a guardare la strada, non crede che potremmo capirlo.

Giulia Comirato

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