L'8 settembre 1945 degli italiani a Singapore

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Che cos’hanno in comune Simon Templar – chi non ha mai visto il film “Il Santo” con Val Kilmer, o, i meno giovani tra di noi, la serie con Roger Moore? –, i sommergibilisti italiani e l’Armata Imperiale Giapponese? Questo elemento in comune si trova passeggiando a Singapore tra i nuovi edifici che cercano di sfruttare al massimo la rendita in cemento per piede quadrato e le poche villette residenziali superstiti con giardino, costruite dalla classe benestante coloniale tra le due guerre mondiali nella zona tra i quartieri di Novena e Newton.

Qui ci s’imbatte in un edificio con un ingresso imponente sorretto da quattro alte colonne ioniche. Su uno dei due pilastri dell’antico ingresso si può ancora leggere una scritta sbiadita: Westbourne, che era l’antico nome della villa, oggi sede di un asilo nido, fatta costruire dal padre di Leslie Charteris, nato in questa villa Charles Bowyer-Yin a Singapore il 12 maggio 1907 e morto a Windsor il 15 aprile 1993. Leslie è l’autore che ha scritto, oltre a varie altre opere di una produzione assai prolifica, “The Saint” (Il Santo).

La conquista giapponese di Singapore

Il 15 febbraio 1942 i giapponesi hanno conquistato Singapore, rinominandola Syonanto (昭南島 Shōnantō), cioè “Isola del Sud della dinastia Showa” e hanno subito confiscato la villa Westbourne per darla agli alleati tedeschi nell’ambito dell’alleanza sottoscritta già nel 1940 tra Roma, Berlino e Tokyo. Li, a villa Westbourne, i Tedeschi installarono la sede della Kriegsmarine, la marina militare.

Un accordo tra le due potenze dell’Asse avrebbe dovuto permettere ai Giapponesi di ottenere dai Tedeschi prodotti chimici sofisticati in cambio di gomma e metalli rari. Visto però che le navi che trasportavano questi materiali da e verso l’Estremo Oriente subivano continuamente perdite pesanti, venendo affondate dagli Alleati, il gran ammiraglio Karl Dönitz, Oberbefehlshaber der Kriegsmarine (Comandante In Capo della Marina Militare) suggerì al Führer che il commercio di questo tipo sarebbe stato più sicuro se si usavano dei sottomarini, invisibili agli aerei. Gli U-Boot, i famigerati sommergibili tedeschi, erano però troppo piccoli e inadatti alla funzione di trasporto.

I sommergibili italiani

Osservando che i grandi sommergibili italiani a lenta immersione con base a Betasom (Bordeaux), non erano molto adatti per la guerra in Atlantico, Dönitz volo’ a Roma per incontrare Mussolini, l’Ammiraglio Arturo Ricardi, Comandante In Capo della Regia Marina, e il Comandante di Betasom, Capitano di Vascello Enzo Grossi. In cambio dei nostri battelli trasformati in sommergibili da trasporto, di cui la Germania aveva una prioritaria necessità, i Tedeschi avrebbero fornito a Betasom un numero uguale dei loro nuovissimi sommergibili da armare con equipaggi italiani. I sommergibili italiani avevano delle caratteristiche – di capienza e di autonomia – che li rendevano ben più idonei al trasporto di materiali e a lunghissime navigazioni oceaniche. L’idea fu subito accettata con favore dalle parti interessate e nel primo semestre del 1943 fu avviato un programma di trasformazione dei sommergibili oceanici di Betasom in unità da adibire al trasporto segreto di materiale strategico fra le Potenze del Tripartito, cioè dalle coste atlantiche controllate dai Tedeschi al Giappone e viceversa.

Nacque in questo modo la Monsun Flotte (Flotta del Monsone).  Singapore, Penang in Malesia e Surabaya in Indonesia erano le tre basi strategiche date alla Kriegsmarine in Oriente dall’Armata Imperiale Giapponese. Villa Westbourne è così l’elemento in comune tra Simon Templar, i sommergibilisti Italiani e l’Armata Imperiale Giapponese. Fra maggio e luglio 1943 i primi cinque sommergibili trasformati presero effettivamente il mare per la nuova missione di trasporto, ma due di essi furono affondati in Atlantico. La navigazione verso l’Estremo Oriente fu pertanto proseguita solo da tre unità: il Giuliani, il Cappellini, ed il Torelli.

Il loro lungo viaggio dalla base navale di Betasom verso l’Estremo Oriente, passando a sud dell’Africa, era stato travagliato, a causa dei vari attacchi degli aerei britannici e dovendo controllare attentamente i consumi di carburante (per il Torelli si era anche reso necessario un rifornimento in alto mare da un U-boot tedesco) poiché qualsiasi imprevisto avrebbe potuto lasciarli fermi in pieno Oceano. Nonostante la avversità, i nostri tre sommergibili completarono felicemente le loro rispettive navigazioni, giungendo fra luglio e agosto nel porto indonesiano di Sabang (isolotto a nord-ovest di Sumatra). Il Cappellini, in particolare, vi arrivò con i serbatoi di nafta vuoti. Da Sabang, ciascun sommergibile proseguì poi la rotta fino a Singapore, sotto la scorta dell’incrociatore coloniale Eritrea, ex nave bananiera dell‘Africa Orientale Italiana riconvertita ad uso militare. A Singapore i nostri sommergibili sbarcarono il carico destinato ai Giapponesi e iniziarono ad imbarcare il materiale strategico da trasportare a Bordeaux per le esigenze dei Tedeschi.

L’Otto Settembre a Singapore

Qui, a Singapore, cominciarono delle vicende travagliatissime per gli equipaggi italiani sorpresi, un paio di giorni dopo, dall’Otto Settembre.

Per le unità italiane in navigazione o in porto Estremo Oriente, l’ordine di Supermarina (il Comando superiore della Marina, operante dalla centrale operativa protetta di Santa Rosa, nel suburbio di Roma) offriva una duplice possibilità: “Navi et sommergibili tentino raggiungere porti inglesi aut neutrali oppure si autoaffondino”. Betasom invece incitava chi non vi fosse ancora giunto, ad arrivare a Singapore al più presto possibile. Il sommergibile oceanico Cappellini si trovava già a Sabang, pronto a ripartire per Bordeaux, mentre i sommergibili Giuliani e Torelli si trovavano ancora a Singapore, carichi delle merci pregiate da trasportare in Europa.

Prigionieri di guerra

Avendo ricevuto la notizia della resa dell’Italia, fra il 9 e il 10 settembre 1943, il vice ammiraglio giapponese Hiraoka Kumeichi, Comandante dell’Unità di Base 9, prese come prigionieri di guerra i comandanti e gli equipaggi italiani, catturando i sommergibili Giuliani e Torelli a Singapore. Il comandante del Cappellini, invece, Capitano di Corvetta Walter Auconi, che aveva nel frattempo deciso, con il plauso del suo equipaggio, di continuare a combattere a fianco della Germania e del Giappone, scortato da navi nipponiche, andò a Singapore, ove fu però catturato con l’inganno.

I tre sommergibili oceanici Giuliani, Cappellini e Torelli, furono formalmente incorporati nella Marina Germanica, venendo rispettivamente contraddistinti dalle nuove sigle U.IT.23, U.IT.24 e U.IT.25. (U.It = U-boot italiano). La creazione della Repubblica Sociale Italiana diede una possibilità formale a equipaggi e comandanti di riprendere a combattere con i vecchi alleati, dopo alcune settimane di durissima prigionia nel campo di concentramento nipponico a Singapore. Del resto i Tedeschi, inesperti nel manovrare con sicurezza i sommergibili italiani, avevano bisogno del personale italiano che conosceva le peculiarità di ciascun sommergibile.

Un limbo opprimente

Dal 9 al 23 settembre 1943 gli Italiani vissero dunque a Singapore in un limbo opprimente in cui c’erano gli ufficiali che volevano obbedire al Re, e i marinai che non capivano cosa fosse successo e si sentivano umiliati, traditi. Ricordiamoci che gli equipaggi italiani degli anni Quaranta non erano composti di filosofi della politica o di dottori in Legge, ma di ragazzi coraggiosi per lo più di origine umile, determinati e pronti a qualsiasi sacrificio pur di riuscire a sopravvivere e fare bella figura in confronto agli alleati Tedeschi e Giapponesi che sbandieravano continuamente le loro capacità militari. Quei giovani poco istruiti potevano quindi essere portati a considerare nient’affatto scandalosa, ma anzi abbastanza coerente e giusta, la prosecuzione del loro stesso impegno nel mutato scenario politico. Immaginiamoli, sessantotto anni fa oggi, in una Singapore molto diversa da quella di oggi, ancora abbastanza avvolta nella giungla, senza aria condizionata, dopo aver sopportato una navigazione talmente dura e di aver felicemente superato tanti pericoli per una finalità e per un’alleanza che era ora ripudiata; e, anziché godere la meritata stima e riconoscenza degli alleati, dover invece subirne il giustificato rancore e disprezzo, essere internati al caldo umido soffocante.

La storia di Fabio Fabbrani

Qui i percorsi umani furono diversi e tormentati. Ne vorrei ricordare tre. Ci fu chi, come il Guardiamarina Fabio Fabbrani, avvocato veneziano, ufficiale sommergibilista della Marina Militare Italiana, arrivò a Singapore nei primi giorni di settembre 1943 e fu accolto con grandi manifestazioni d’amicizia da parte degli alleati nipponici ammirati per l’impresa di difficilissima navigazione di oltre 13.000 miglia, durata due mesi, attraverso due Oceani, l’Atlantico e l’Indiano, sfuggendo a un nemico forte e agguerrito.

I giapponesi organizzarono un banchetto in onore degli equipaggi italiani, nella sede del circolo degli ufficiali giapponesi (che aveva occupato la precedente sede dell’Union Jack Club), dietro il Raffles Hotel a North Bridge Road, pavesato col tricolore con stemma sabaudo, la bandiera del Sol Levante e quella nazista con svastica, alla presenza di alti gradi della marina militare nipponica, e allietato da un’orchestrina, con numerosi e brillanti reciproci brindisi inneggianti alla vittoria dell’alleanza.

Dopo quasi una settimana l’intero equipaggio del Giuliani, di cui faceva parte il Guardiamarina Fabio Fabbrani, fu accusato di tradimento, come si accennava prima, e chiuso senza alcun riguardo in un campo di prigionia. Il Guardiamarina Fabbrani, a seguito della lunga prigionia e degli stenti conseguenti fu ridotto in fin di vita e solo le cure prestategli in un ospedale militare americano dopo la sconfitta dei Giapponesi gli consentirono di recuperare la salute e di rientrare a Venezia.

La singolare fine della prigionia di Walter Auconi

Singolare fu invece la fine della prigionia del comandante Walter Auconi e del suo equipaggio, imbarcato a forza sulla nave tedesca Burgenland camuffata da unità americana con il nome di Floridian per essere trasferiti in Europa. La nave che doveva ripercorrere la rotta praticata da Auconi all’andata, partita da Singapore il 17 novembre 1943, riuscì, grazie al suo camuffamento, a superare indenne l’oceano Indiano pattugliato dal naviglio alleato, a raggiungere il Capo di Buona Speranza, aggirarlo, ed immettersi nell’Oceano Atlantico navigando verso Bordeaux.

A Natale, poco lontano dall’isola di Ascensione, la Burgenland fu riconosciuta da un incrociatore nemico ed affondata, episodio che risultò in una nuova odissea dei sopravvissuti al naufragio, 24 marinai tedeschi (compreso il comandante della Burgenland) e 8 italiani, ex carcerieri ed ex prigionieri accomunati da un comune destino in una scialuppa di salvataggio che fu posta agli ordini di Auconi che era l’ufficiale più anziano. I naufraghi, dopo aver percorso a vela e a remi in 9 giorni le 700 miglia dal punto dell’affondamento, raggiungono in Brasile la base americana di Pernambuco ove vengono internati.

Il motorista Raffaello Sanzio

A Singapore il sergente motorista Raffaello Sanzio, pugliese, aveva aderito, come la maggior parte degli equipaggi, alla Repubblica Sociale Italiana. Il Sanzio era quindi tornato sul suo sommergibile Torelli (ribattezzato U.IT.25) e aveva continuato a partecipare per altri 20 mesi, con l’equipaggio misto italo-tedesco, alle operazioni belliche condotte dal Comando germanico della base sommergibili di Penang contro gli anglo-americani. Dopo la resa della Germania, l’8 maggio 1945, scelse di collaborare con i Giapponesi che lo trasferirono sul Cappellini (ribattezzato I.503) col ruolo di Direttore di Macchina del battello, armato con equipaggio misto italo-giapponese. Con quest’ultimo sommergibile per gli ultimi quattro mesi della Seconda Guerra Mondiale partecipò unitamente al Torelli (I.504), dalla base navale di Kobe, alle ultime operazioni di difesa del Giappone contro gli assalti finali degli Americani, riuscendo, con gli altri membri dell’equipaggio italiano, a salvare ancora una volta il suo sommergibile e ad abbattere un bombardiere statunitense B25 Mitchell: l’ultimo successo militare conseguito nello spirito dell’ormai dissolto Tripartito.

Lo stesso Raffaello Sanzio ne parlò poi in questi termini: “furono proprio le mitragliere Breda da 13,2 del mio sommergibile ad abbattere, il 22 agosto 1945, l’ultimo bimotore da bombardamento Usa. Accadde a Kobe, e siamo stati noi Italiani a tirarlo giù”. Naturalmente Sanzio fu considerato un traditore, come tutti gli aderenti alla RSI, non un patriota, dalla Repubblica Italiana e per questo scelse di cambiare il suo cognome da Sanzio in Kobayashi, il cognome della moglie, e divenne suddito giapponese.

Le esportazionui di armi italiane verso Singapore

Ricordando oggi quegli eventi dimenticati da tutti e probabilmente sconosciuti, mi sono chiesto anche quale sia la presenza militare italiana a Singapore dopo 68 anni. Secondo il Rapporto del Presidente del consiglio dei ministri sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento, anno 2010, Singapore rappresenta il 2,54%, pari a 82,68 mln. di euro del commercio di armi Italiane verso Paesi non UE/NATO. Le autorizzazioni all’esportazione dirette verso i Paesi Asiatici, (Estremo Oriente) hanno registrato un aumento rispetto al 2009 dovuto principalmente ad una sostenuta dinamica di esportazioni verso India e Singapore (vedi pagina 28 di 161 del rapporto http://www.disarmo.org/rete/docs/3722.pdf ). Come si può vedere nel grafico a pagina 137 di 161 del rapporto, la piccola Singapore rappresenta per l’Italia il sesto mercato non UE/NATO: una cifra considerevole viste le minute dimensioni dell’isola.

Paradossalmente, in tempo di pace l’Italia è più presente militarmente a Singapore di quanto lo fosse in tempo di guerra…

Photo by Swapnil Bapat on Unsplash

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