Travel yang

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“Arrivare – come partire – è, prima che un atto fisico, una condizione mentale” *yin_yang_travelPer andarsene da quella cosa che a torto o ragione chiamiamo casa serve una spinta al movimento, la tendenza all’altrove che nasce in qualche angolo remoto del cervello e si espande, cresce, in un climax di propensione, voglia, desiderio, decisione. Tutta roba che precede di parecchio valigie e biglietti e saluti e cose gettate dietro le spalle proprie e altrui.

E, ok, fin qui si sapeva.

Col tempo è stato però sorprendente, almeno per me, constatare come anche l’arrivo richieda il suo non meno complesso iter mentale, assieme a quantità di energia e risoluzione forse anche maggiori. Cioè, partire è un’azione puntuale, uno strappo: fatto, au revoir, via. Arrivare invece è l’inizio di un processo: il primo anello di una catena. Sono due azioni complementari ma opposte, yin e yang, roba così.

Certo, non che credessi che la distanza tra i due capi del filo corrispondesse semplicemente alla linea da A a B (un volo intercontinentale e un paio di gate, nel caso mio), no, sarebbe stato intollerabilmente ingenuo, ma il fatto che la meta – che il sentirsi arrivato – sia giunto a una tale distanza, temporale prima che fisica, e assolutamente senza soluzione di continuità, ecco, questo mi ha preso un po’ in contropiede. Ogni tanto arriva uno sprazzo di lucidità e mi rendo conto di essere a mezzo pianeta da casa, circondato di anglofoni sbronzi e di starmela passando, in effetti, discretamente bene. Ed è una cosa abbastanza surreale, questo effetto “proiezione extracorporea” (ma anche gli anglofoni sbronzi non scherzano), questo scoprirsi di tanto in tanto a fissarsi dall’alto pensando “ma cosa ci fai tu lì?”. Con quello sguardo e quel tono che probabilmente assumerebbe mia nonna, per cui l’idea di “estero” corrispondeva a Cortina, pace all’anima sua. E il problema è che darsi una risposta precisa è dannatamente difficile.

Cioè, io non lo sapevo che i chilometri mentali erano così lunghi da macinare; non sapevo che le distanze si metabolizzano piano; che gli shock culturali da soli non bastano a regalare un nuovo sguardo; che non è che un giorno ti svegli e scopri di sentirti finalmente a casa – stupida favoletta rassicurante -, ma piuttosto ti svegli e ricordi di aver sognato casa che, però, non ti era più così familiare.

@_elioR_

 

* Autocitazione, virgolettata col solo fine di attribuirle una pretesa di spessore intellettuale.

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