Una casa al mare: le Cinque Terre, le catastrofi naturali e il turismo

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L’abitante di questa casetta era probabilmente un giovane lavoratore, appassionato di musica, attento ai fatti del mondo e socialmente attivo. Lo si capisce dai poster di Gramsci e Louis Armstrong attaccati sull’armadio bianco e dalla parabola satellitare appoggiata su quel che resta del pavimento distrutto del primo piano. La sua storia è ancora iscritta in questi oggetti e chi li guarda prova una immediata empatia per le sue vicende. Passandoci davanti, la gente si ferma a guardare dentro la vita degli altri e pensa che doveva aver fatto grandi sacrifici questo ragazzo per tirar su il tetto con travi a vista e godersi lo spettacolo del mare, se è vero che il resto del mobilio, dalla scarpiera alla scrivania a muro, sono sicuramente umili.

Siamo alle Cinque Terre, sul sentiero del parco naturalistico che porta da Vernazza a Monterosso. È metà giugno, ma ancora la strada che collega La Spezia al piccolo paesino dell’alto Tirreno è solo parzialmente percorribile. Nell’ultimo chilometro prima del paese si incontrano soltanto ruderi di casali, poggiati, imprudentemente sul letto del canale che scende fino al mare. Percorrendo a piedi le ultime centinaia di metri sull’unica corsia rimasta, si ha la netta sensazione che questa stessa sede stradale possa da un momento all’altro cedere, poggia com’è su un letto d’acque piovane e un terreno friabile.

In giro per Vernazza, ci sono quasi esclusivamente americani, e qualche tedesco. Gli italiani in giro si contano sulle dita di una mano e qualcuno ha l’impressione di aver ceduto a questi yankees il piacere di un territorio così bello. Sarà perché gli italiani sono in crisi economica; o perché tendono a concentrare le loro ferie soprattutto nelle prime due settimane di agosto. Ma più forte è la sensazione che gli italiani stiano fuggendo dai posti che raccontano, in poco più di un anno, la sovrapposizione delle tragedie (Cinque Terre, Genova, L’Aquila, il Ferrarese e il Modenese, l’Isola del Giglio). I pochi italiani che ci sono non sembrano percepire la minaccia della natura.

Una coppia si butta in acqua a pochi metri dalle rocce dei faraglioni; un’altra, poco più in là, si stringe in un abbraccio, incurante delle onde sempre più forti.

Fra Finale Emilia o Sant’Agostino e Vernazza ci sono poco più di 200 km e un paio d’ore di macchina. Lì, come qua, il panorama umano è quasi lo stesso. Negozianti, artigiani, marinai, ceramisti, ricominciano a lavorare, come se niente fosse. Le routine quotidiane riprendono, malgrado le mura sporche di fango o le crepe sugli edifici. Quelle facce, come queste, accettano la potenza della natura, e l’esperienza umana del limite. E raccontano un senso di attaccamento alla propria terra, che non sarà mai dismesso. Mentre i turisti ordinano una focaccia alla genovese, passando sopra un’idrovora o un barattolo di vernice, rifletto sul legame fra calamità naturali e memoria collettiva. La più grande sfortuna per chi abita in questi luoghi, forse, è stata proprio il sovrapporsi di altre disgrazie sul nostro stesso territorio nazionale. L’alluvione è avvenuta il 25 ottobre ma già la cronaca ci costringe a pensare ad altro e a dimenticarci quasi totalmente di queste vicende.

Vincenzo Romania

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