Visita alla fabbrica di mattoni

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20140117_151403 (FILEminimizer)(1) Dopo aver lavorato per anni nel settore dell’edilizia, sto bevendo il chai con un amico. Si sta discutendo del prezzo dei mattoni nella zona. In questa zona dell’India tutto è fatto con i mattoni, quelli pieni, quelli fatti come una volta. Le case, le pavimentazioni, le murette, tutto è mattone tutto arriva dalla terra. Sto facendo mentalmente il calcolo del prezzo del mattone in India e scopro che un pezzo costa 6 rupie, circa 7 o 8 centesimi di euro e resto basito quando scopro che in quindici anni i prezzi sono aumentati di venti volte.
Sto ancora mentalmente cercando di figurarmi il come sia possibile che i prezzi siano così bassi e nel mentre il mio amico mi dice:”Domani devo andare a contrattare un prezzo di un carico alla fabbrica di mattoni vuoi venire a vederla?”. Non aspettavo altro. Il giorno dopo subito dopo pranzo salto sulla moto e mi avvio verso il ventre dei campi indiani, le auto diventano sempre più rare, se non fosse per i cavi della corrente potrebbe essere il 1700. Si vedono ancora le case in terra cruda, con muri spessi un metro, mi dicono essere calde d’inverno e fresche d’estate. Una tradizione che sempre più spesso  viene abbandonata per far spazio alla modernità, al cemento e alla lamiera, al caldo torrido d’estate e al gelo nel breve inverno.
Si percorre la strada, dove sono più gli animali che i veicoli, l’asfalto finisce e la terra comincia. Cominciano a vedersi anche questi cannoni giganti nel paesaggio, sembrano degli enormi lanciamissili puntativerso il cielo, perpendicolari al terreno. Il fumo che ne esce è denso, forte, nero e sembra che stia per uscire una palla di cannone da ognuno di essi. Mi guardo intorno e comincio a contarne in lontananza uno, due, cinque, dodici. Sono in quella che potrei definire una “zona industriale”, altri cinque minuti di questo mondo antico e affascinante e si arriva alla fabbrica.  Entro e mi ritrovo davanti a una scena rubata dai libri di storia, forse siamo tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Forse riesco a vedere la miseria di Oliver Twist in questi bambini. Sono immerso nella distesa di polvere e fango, carbone e schiavitù.


Mi guardo attorno e comincio improvvisamente a rendermi conto, con una visione panoramica che sono finito in un vero e proprio villaggio industriale. Il cannone gigante al centro e intorno i vari settori, i mattoni cotti da una parte, quelli ancora crudi da un altra, poi la grande vasca del carbone e le “case” degli operai. Case, che sono semplicemente dei mattoni sovrapposti l’uno all’altro per permettere di poggiare sopra una lamiera. Operai che non sono semplicemente operai, sono famiglie intere, dal nonno al nipote di qualche anno. Sono tutti coinvolti nel lavoro, in giorni che passano uguali uno all’altro, tra la polvere sottile e il calore infernale che sprigiona una fornace del genere.

20140117_152312 (FILEminimizer)Si pestano i cumuli di mattoni in fase di cottura, ci si passa sopra e l’aria diventa subito torrida, polverosa. Sembra il deserto, ma con il freddo che c’è a gennaio fuori si sta anche bene. Chiedo subito: “Ma a giugno che la temperatura arriva a 45 gradi come si fa?”. Ovviamente la risposta che mi arriva l’avevo già intuita. “Si fa lo stesso, che problema c’è.” Provo in quel momento un senso di forte impotenza, di tristezza per quello che siamo riusciti a insegnare a queste popolazioni contadine. Un modello che si perpetua in modo errato e che non ha ancora trovato un modo per soddisfare bisogni locali senza dover rendere schiave famiglie intere per un pezzo di pane, per un pezzo di vita.

Una domanda mi sorge spontanea: “Ma se un miliardo e trecento milioni di indiani continuano a seguire il nostro modello di sviluppo, con relativi sprechi, bisogni energetici e inquinamenti ambientali che fine farà il nostro pianeta?”. E’ un problema che sembra distante e che sembra non toccarci e in realtà dovrebbe essere il più importante, per la sopravvivenza della specie umana stessa. Esportiamogli modelli di sostenibilità invece che automobili o vestiti firmati, anche da questo ne dipende il futuro delle prossime generazioni.

Nicolò Bortoletto

Leggi il blog La crisi dell’uomo e la voce indiana

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