Alessandro Gassman e il suo no alla pena di morte
Nel mondo ci sono ancora 68 nazioni dove la pena di morte è praticata e altri 30 stati dove è prevista, anche per reati comuni, anche se non si compiono esecuzioni da almeno 10 anni. Sono ancora troppi, e lo sa anche Alessandro Gassman, che ha messo nero su bianco la sua battaglia nella prefazione del libro+dvd di Marco Cortesi “L’esecutore”(Infinito Edizioni).
Ecco le parole di Gassman.
È stata l’azione di un boia, sono state le immagini di un’esecuzione, a darmi la voglia di portare la campagna di Amnesty International per l’abolizione della pena di morte nei miei spettacoli. Per paradosso, se mai ci fosse una “pena di morte giusta”, quella comminata al dittatore iracheno Saddam Hussein il 30 dicembre 2006, sarebbe stata tra le più “giuste” possibili. Eppure quelle immagini sporche, girate con un telefonino, piombateci addosso a poche ore dal Capodanno 2007, mostrano l’orrore puro della vendetta, della ritorsione, della rappresaglia. Le trovate ancora su youtube. Per me, sono tra i messaggi più potenti contro la pena di morte.
Da allora, per oltre due anni, ho portato in scena La parola ai giurati, un dramma scritto da Reginald Rose nel 1957 per la radio e poi portato sullo schermo dal regista Sidney Lumet con il titolo Twelve angry men, ossia Dodici uomini arrabbiati. A migliaia e migliaia di spettatori abbiamo raccontato della fallibilità della giustizia umana e parlato di come, a fronte di quella fallibilità, a nessun giudice possa essere dato il potere illimitato di disporre la morte di una persona. Abbiamo raccontato di quanto sia necessario, se vogliamo vivere nel XXI secolo e non nel Medioevo, che la pena non sia mai né uguale, né tanto meno peggiore, del crimine che intende punire.
Soprattutto, abbiamo salvato vite umane, nel corso delle repliche dello spettacolo, grazie all’impegno delle attiviste e degli attivisti di Amnesty International che ogni sera erano nel foyer dei teatri a raccogliere firme per impedire un’esecuzione in quella manciata di Stati che ancora si ostinano a pensare che la pena di morte serva a qualcosa, e siccome serve a qualcosa, sia persino giusta. Alla barbarie di un’esecuzione quasi improvvisata come quella di Saddam Hussein, si contrappone la barbarie delle meticolosissime procedure che regolavano ogni aspetto delle esecuzioni in Francia. A vedere L’Esecutore, ho provato eguale orrore e indignazione. Spero siano gli stessi sentimenti di tutte le persone che lo vedranno e che questo cofanetto accompagni, come continuo con orgoglio a fare io, gli sforzi di Amnesty International per mettere la pena di morte nel posto dove merita di stare: nella pattumiera della storia dell’umanità. Concludo con la frase che ha accompagnato e chiuso tutte le repliche de La parola ai giurati. È di Serafina Mukamosoni, sopravvissuta al genocidio del 1994 in Ruanda:
“La decisione del mio Paese di abolire la pena di morte è una buona decisione. Dopo tutto, il dolore è una questione personale e non credo affatto che tutti i parenti delle vittime del genocidio si sentirebbero meglio se la morte dei loro familiari venisse vendicata. Uccidere chi ha ucciso non ci riporta indietro i nostri cari”.