A Nordest Di Minneapolis (Cervelli in fuga: la storia di Claudia)

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Li chiamano cervelli in fuga, ma sono molto di più. Sono persone. Sono i ricercatori e dottorandi italiani che, per scelta o necessità, lavorano e studiano all’estero, a tanti chilometri da casa. La storia di Claudia (Minneapolis, USA) su Quadrante Delta.

A 7601 km da casa.

Claudia, post-doc a Minneapolis (USA).

Vivo a Minneapolis. Quando lo dico, le facce di chi mi sta ascoltando spaziano dall’interrogativo all’incredulo. Di solito la prima cosa che devo specificare è “No, non ci fanno le corse automobilistiche; quella è Indianapolis”. Poi, specialmente se sto parlando con qualcuno della mia generazione, o limitrofi, cerco di rendere le cose più semplici dicendo “Sai, la città di Brendon e Brenda Walsh”. Aahhhh, haha, ok. Inquadrata. Più o meno.

Minneapolis si trova in Minnesota (USA), ai confini con il Canada, e in pratica non è famosa per niente. Anzi no, così come San Francisco ha il Golden Gate Bridge e New York ha l’Empire State Building, anche Minneapolis ha il suo simbolo: il Mall of America, uno dei più grandi centri commerciali degli Stati Uniti, e, secondo wikipedia, il più visitato al mondo, con più di 40 milioni di avventori annuali. Inoltre, è l’area urbana dagli inverni più freddi di tutta la nazione, con temperature che si assestano su una media diurna di -10 gradi celsius per circa tre mesi.

Minneapolis è attraversata dal Mississippi, che nasce qualche miglio più a nord. Tuttavia, nessuno si aspetta di trovare il Mississippi a Minneapolis; il Mississippi, si sa, è a sud, là, dove c’erano gli schiavi, dove Huckleberry Finn viveva le sue avventure. E invece anche io, come Huckleberry Finn, lo attraverso molte volte al giorno, dato che il campus della University of Minnesota, dove lavoro, si estende per metà sulla sponda est e per metà sulla sponda ovest del fiume. Per farla breve, nessuno sa niente di Minneapolis, io stessa non ne sapevo nulla prima di arrivare. Gli stessi americani tendono mediamente ad ignorarla, congedandola sbrigativamente come parte del Mid-west, quell’area degli Stati Uniti centrali la cui offerta culturale si ferma per lo più all’annuale fiera dello stato, con l’esposizione del maiale più grande, del cheesburger più grosso e via dicendo (oh, per la cronaca, la fiera annuale del Minnesota è la seconda più grande degli USA).

Posso dirvi invece che non c’è nulla di più lontano dalla verità. O meglio, è vero, Minneapolis non è famosa nel mondo, non è bella come una qualsiasi città europea -ma quale città americana lo è?-, non ha il fascino della grande metropoli che caratterizza Chicago o Boston, non pullula di surfisti come la costa californiana, però è sorprendentemente attiva, e gode di una qualità della vita fantastica. Innanzitutto, ci sono i laghi, proprio in città. Più di uno, tutti bellissimi, e fanno da parchi “spontanei” in mezzo ai quartieri. Poi, non si contano i teatri, i concerti, le mostre, per non parlare dei locali che offrono buon cibo (si si, avete capito bene) e buona birra. La gente è di una gentilezza disarmante, a volte persino fastidiosa, come l’autista dell’autobus che ogni mattina ti accoglie col sorriso e ti saluta con “have a wonderful day!”. Minneapolis è anche la patria degli hipsters che non sanno di esserlo, infatti la gente porta barba, baffi, camice a quadri, va in bicicletta e supporta qualsiasi tipo di piccolo business locale da molto prima che andasse di moda a Brooklin.

La cosa che mi piace di più, però, è che qui nessuno riesce mai a capire da dove vengo, o che lingua parlo. Ho trovato italiani, discendenti, residenti o semplicemente in vacanza, ovunque, ma non qui; qui l’immigrazione è stata tedesca, svedese, norvegese, e il turismo è praticamente inesistente (vedi sopra). E nonostante esista un Italian Cultural Center, la densità di compatrioti è veramente minima, tanto da riuscire a concentrarsi in un singolo pub del centro per la finale dell’europeo Italia-Spagna. Per questo motivo la mia provenienza risulta sempre molto esotica, con la conseguenza di farmi sentire speciale, e quando la svelo la gente mi guarda, con lo stesso sguardo stupito con cui mi guardano gli italiani ai quali nomino Minneapolis, e mi dice “Italy?! Wow! Ma come ci sei finita qui?!”. Provate a provocare questo effetto a New York o a San Francisco…

Nonostante, certo, mi manchi il mio Paese, o anche solo la dimensione europea, qui, inaspettatamente, sto molto bene, e sono convinta di poter parlare anche a nome di Carlo, mio marito, che a onor del vero è stato sin dall’inizio il più entusiasta tra i due riguardo a questo trasferimento! Ringrazio le infinite vie del mio lavoro per avermi permesso di vivere una grande esperienza che altrimenti non avrei mai spontaneamente scelto di fare, in una parte di mondo alquanto sottovalutata, e che per questo risulta ancora più affascinante.

 

(Fine terza puntata. Siamo a  17381 km da casa.)

Antonio Pilello

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