Gli amici di Primo Levi

Primo Levi 31 luglio 1919 – 11 aprile 1987

“Se questo è un uomo” viene spesso letto come una testimonianza individuale, perchè è molto di più e perchè Levi si è fatto portavoce delle vite di molti suoi compagni come Charles (Conreau), Alberto (Dalla Volta), Lorenzo (Perone) e Jean (Samuel). Un approccio evidenziato anche da altri suoi scritti in cui non mancano i riferimenti ai suoi compagni di liceo, di università e di passeggiate in montagna. Rileggerli con attenzione consente un viaggio tra timori, pensieri ed emozioni di Levi, studente, chimico e scrittore morto l’11 aprile 1987.

Al liceo

Ne sono un esempio i due racconti dedicati ai compagni di liceo classico del D’Azeglio: il primo intitolato “idrogeno” fa parte de “Il sistema periodico”.
“Ero affascinato da Enrico, non era molto attivo, e il suo rendimento scolastico era scarso, ma aveva virtù che lo distinguevano da tutti gli altri della classe e faceva cose che nessun altro faceva”. In “Idrogeno” il racconto di questa amicizia divenne un pretesto per raccontare il suo modo di intendere gli studi di chimica: “Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt’altro: per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze sicure, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine intorno a me e nel mondo. Capirò tutto ma non come LORO vogliono. Troverò una scorciatoia, rifarò un grimaldello, forzerò le porte”. Ma, mentre Levi, pur non cessando di essere un chimico, trovò notorietà internazionale come scrittore, Enrico o meglio Mario Piacenza, così si chiamava il compagno di classe a cui si era ispirato Levi, divenne noto proprio grazie alla chimica. Nel dopoguerra si trasferì in Perù dove fondò un’impresa che, a quanto pare, lo rese molto ricco. Piacenza, amante della pittura creò, nel 1962, “la Bienal de Pintura de Teknoquímica” e, oggi, nel paese andino, viene ancora ricordato come il grande “mecenate della plastica” per la sua straordinaria passione per le combinazioni chimiche necessarie alla creazione di materiale. Sempre in America Latina, ma questa volta in Argentina, si trasferì un altro compagno di classe: Pierluigi Olivetti. Quest’ultimo emigrò dopo l’emissione delle leggi razziali del 1938 e rimase in Argentina fino al 1963 quando decise di tornare in Italia in dissenso con l’ideologia e le frange estreme del peronismo. Tornato a Milano riprese i contatti con Levi che soprannominò “el memorioso”.

Ad un altro compagno di classe Levi dedicò, invece, il racconto “un ultimo duello”. Protagonista Guido: “Un giovane barbaro dal corpo scultoreo intelligente ed ambizioso, invidiava i miei successi scolastici; io simmetricamente, invidiavo i suoi muscoli, la sua statura, la sua bellezza e le sue precoci libidini”. Nel racconto Levi narra degli ostinati e ripetuti duelli atletici tra lui, ebreo, e l’ariano Guido: tra l’intelligenza e la forza. Levi chiuse il racconto con un interrogativo sul futuro del compagno: “di Guido ho perso le tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita; ma non ho dimenticato quello strano legame che forse amicizia non era, e che ci ha uniti e divisi”.

Terminate le sfide con Guido, nel 1937, Levi si presentò all’esame di maturità, con un curriculum scolastico prestigioso e privo di insufficienze senza però essere il primo della classe. Escluso Ennio Artom, che era un vero e proprio genio, i voti più alti furono quelli di Maurizio Panetti, uno studente modello che proseguì gli studi in chimica laureandosi, ovviamente, con lode.
A Levi, invece, toccò l’onta della bocciatura in italiano: prese tre nel tema e fu quindi costretto a ripetere l’esame a ottobre. Fu l’unico maschio bocciato in italiano di tutto il liceo. Unica sua compagna di sventura fu una donna, anch’essa destinata ad una vita intrisa di letteratura: Fernanda Pivano che ricordò l’episodio della bocciatura in un articolo del Corriere della Sera pubblicato il 18 aprile 1987, una settimana dopo la morte di Primo: “fummo gli unici due bocciati del liceo. Mi pare che il professore si chiamasse Pasero. L’episodio mi ritornò alla mente quando diedero il Nobel per la pace a Elie Wiesel, anche per i suoi meriti nella divulgazione del dramma ebraico dell’olocausto. Pensai a un’altra ingiustizia, pensai che Levi si era trovato di fronte a un altro tre di italiano dato da un professore di cui non si conosce neanche il nome”.

Alcuni biografi scrissero che il tre fu dovuto al rifiuto di Levi di scrivere un tema inneggiante alla guerra, questo valse probabilmente per Fernanda Pivano, ma non certo per Primo, scombussolato per altri motivi: “all’antivigilia del primo esame, il tema scritto d’italiano, ricevetti nel luglio 1937, una minacciosa cartolina rossa intestata al Ministero della guerra per comunicazioni urgenti. Ci andai col cuore presago, trovai accanto a me un altro adolescente che (la cosa non è mai stata chiarita) si chiamava Levi anche lui, e davanti a me un energumeno in divisa fascista, che ci investì con una valanga di insulti accuse e minacce. Era scarlatto in viso, in preda ad un parossismo di collera; ci accusò nientemeno che di tentata diserzione. Eravamo due vigliacchi: secondo lui, non avevamo risposto ad una precedente chiamata, allo scopo evidente di evitare il servizio militare nella Regia Marina: sì perché proprio noi due eravamo stati estratti a sorte a Torino per la leva di mare. Ventiquattro mesi di ferma non ce li levava nessuno. (..) Tornai a casa terrorizzato; il giorno dopo consegnai un tema d’italiano striminzito e demenziale, tanto che, giustamente, mi presi un tre, fui escluso dalla prova orale e rimandato ad ottobre. Era la prima insufficienza della mia immacolata carriera scolastica e mi suonò poco meno che come una condanna all’ergastolo”.
Per evitare la leva in marina, decise quindi di arruolarsi, subito dopo la prova d’appello d’italiano, nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (la Mvsn). “Mi iscrissi all’università e mi trovai nei panni di milite Universitario. A quel tempo non ero né fascista né antifascista; vestire una divisa non mi dava alcuna fierezza, bensì un impreciso fastidio (soprattutto per via degli stivali) ”.

In montagna

Levi riuscì così ad evitare la Marina che sarebbe stato davvero il colmo per un “montanaro” come lui.
Aveva incominciato ad arrampicarsi attorno ai quattordici anni, sulle vette di Cogne, di Bardonecchia e di Torre Pellice. Più avanti rinnovò le escursioni col compagno di classe Giorgio Lattes, che gli rimase amico per tutta la vita. Una passione per la montagna condivisa da altri compagni, tra cui il geniale Ennio Artom che a 15 anni già collaborava già la Utet e faceva traduzioni per la Einaudi. Parlava sei lingue ed era un esperto di latino e greco ma non disdegnava confrontarsi anche con l’ebraico e l’aramaico. Fu proprio un banale incidente di montagna a causarne la morte, poco più che ventenne. Durante le vacanze estive del 1940 scivolò e sbatté la testa contro una pietra.

Fu, però, con i compagni di Università che Levi si diede al vero e proprio alpinismo e proprio ad un compagno di studi ed escursioni dedicò il racconto “Ferro” inserito ne “Il sistema periodico”:
”Fuori dalle mura dell’istituto di chimica era notte, la notte dell’Europa: Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L’Italia fascista, pirata minore, aveva occupato l’Albania, e la premonizione della catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite. (…) In mezzo a noi Sandro era un isolato. Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappello. (…)Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali e stavo diventando un isolato anch’io”.

Con Sandro nacque quindi un forte legame e, una domenica di febbraio del 1939, partirono insieme per un’avventurosa ascensione, “il peggio che può ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso” gli aveva preannunciato Sandro. In effetti sbagliarono percorso a causa della nebbia e sopraggiunse la notte prima che potessero intraprendere la discesa. Dormirono in quota. serrati uno contro l’altro, al riparo di un muretto a secco costruito da loro stessi.
Fu in quel modo che Levi assaggiò la “carne dell’orso”: “ora che sono passati molti anni – scrisse Levi nel 1961 – rimpiango di averne mangiata poco, poiché di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare e padroni del proprio destino. Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi”.

La meta preferita di Levi era però la Val di Lanzo, ricordata anche in un’occasione speciale, durante la sua visita alle Twin Towers del 1985: “dal tetto del duplice World Trade Center la vista è vertiginosa come da una vetta alpina: le pareti scendono a picco per quattrocento metri e si vedono in fondo veicoli e pedoni brulicare come insetti frenetici. Nella splendida baia, groviglio di isole, canali, istmi, la Statua della Libertà è una nana, ma l’opuscolo che descrive i due colossi gemelli esagera. “non sarete mai stati altrettanto vicini alle stelle!” … Basta andare a Lanzo”.

Ma non si può chiudere senza la poesia rivolta agli amici conosciuti tra i banchi, nei lager o passeggiando in Val di Lanzo che Levi scrissi il 16 dicembre 1985.

“Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola: Moglie, sorella, sodali, parenti, Compagne e compagni di scuola, Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita: Purché fra noi, per almeno un momento, Sia stato teso un segmento, Una corda ben definita. Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica, E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita. O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo, Prima che s’indurisse la cera, Quando ognuno era come un sigillo. Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via; In ognuno la traccia di ognuno. Per il bene od il male, In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno. Ora che il tempo urge da presso, che le imprese sono finite A Voi tutti l’augurio sommesso Che l’autunno sia lungo e mite”.

Massimiliano Boschi

Nell’immagine di apertura: la classe di prima liceo di Primo Levi (il quarto da sinistra nell’ultima fila) nell’anno scolastico 1934-1935.

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