Arabi oggi: la crisi di Dubai e Barack Al Obama

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Oggi pomeriggio nuvole dense cariche di pioggia incombevano sopra Business Bay mentre dalle sei corsie di Sheikh Zayed Road il taxi sembrava correre in fondo a un canyon di torri e grattacieli. La più grande lavasoldi del mondo è diventata l’occhio del ciclone, la foresta semovente di gru da costruzione si è trasformata nella città dei cantieri fantasma. In Europa hanno scoperto che Dubai è in crisi: ben svegliati! Qui invece dicono che tutto va bene ma si sa che qui certe cose vanno così.
Mentre la crisi finanziaria stava mettendo in ginocchio il mondo qui il direttore di una delle più grandi immobiliari locali annunciava il lancio del loro ultimo megaprogetto: un intero quartiere che avrebbe avuto come icona un grattacielo lungo più di un chilometro che sarebbe diventata l’edificio più alto del mondo.
In effetti Burj Dubai è una torre meravigliosa, peraltro è anche quasi pronta, sarà inaugurata tra poco, e anche il quartiere intorno con una meravigliosa gigantesca fontana è praticamente terminato, per quanto non so proprio chi ci andrà ad abitare. Quello che doveva preoccupare non era tanto la grandiosità del progetto ma la sicumera con cui si diceva: “Sicuramente qualcuno di voi domanderà se non sia una pazzia lanciare questo progetto (magari sarebbe stato meglio se lo fosse domandato anche lui) ma i fondamentali del mercato di Dubai sono troppo forti e qui non ci sarà nessun crollo”.
Dopo questa storica affermazione i prezzi degli immobili a Dubai sono crollati del cinquanta per cento, le società immobiliari hanno bloccato la maggior parte dei progetti in corso, migliaia di operai sono stati licenziati e più di trecentomila persone hanno lasciato la città. A Napoli lo passerebbero nella pece e lo ricoprirebbero di piume per quanto porta sfiga. Personalmente a questo signore non darei da gestire nemmeno la mancetta che papà mi dava da bambino la domenica per comprare le figurine.
David Jackson, ex assistente agli acquisti di Saks Fifth Avenue, veniva da Lehman Brothers, calò dall’America per diventare direttore delle private equities di Dubai World, la holding che gestisce gran parte dei progetti immobiliari, marittimi e infrastrutturali per il Governo di Dubai. Un piccolo inciso: se state cercando un dirigente da mettere a capo del vostro fondo d’investimento il nome Lehman Brothers non dovrebbe suggerivi qualcosa? Sta di fatto che anche lui comincia a mettersi in grande evidenza comprando in serie hotel di lusso, il Mandarin Oriental di Manhattan, il Fountain a Miami (dove è stato girato 007 Goldfinger) poi continua facendosi il Cirque du Soleil, quei guitti canadesi che saltano da un trapezio all’altro senza rete fino a che uno non cade e si sfracella (a dimostrazione di quanto pure Jackson non sia propriamente un portafortuna), infine decide di piazzare il colpo comprando dalla corona britannica nientepopodimenochè il piroscafo reale Queen Elizabeth con il progetto di ormeggiarlo a Palm Jumeirah e farne un albergo per americani oversize e i russi arricchiti non si sa bene come con i loro fastidiosissimi mocciosi schiamazzanti (insomma, un po’ di rispetto per la Regina!). Quando scoppiò la crisi dichiarò: “il problema dei subprimes può avere creato delle ansietà alle vostre normali società di investimento ma non certo a noi. Grazie a voi – leggi “grazie a voi coglioni” – il prezzo del petrolio salirà oltre gli ottanta dollari al barile e io non mi preoccupo proprio di dove troverò i soldi per il mio prossimo affare”.
What goes around comes around: nelle scorse settimane Dubai World ha chiesto di rinegoziare debiti per oltre venti miliardi di dollari “cogliendo di sorpresa” i mercati immobiliari occidentali. Se c’è una crisi che sta togliendo anche la pelle a ogni abitante di questo povero pianeta e contemporaneamente questi si mettono a costruire delle piste da sci nel deserto, un analista finanziario puoi dirsi sorpreso se dopo qualche mese va tutto a catafascio? Forse sono troppo naif e dovrei tornare a vendere forme di parmigiano ma tutta questa sorpresa sorprende.
Barack Obama in una conferenza al Cairo qualche mese fa aveva affermato che “Dubai è un esempio di come lo sviluppo economico possa fronteggiare la crisi”. Anche lui è meglio che finito il mandato non punti troppo sull’andare in tivù al gioco dei pacchi. Fino a oggi Obama nella penisola arabica è giudicato un po’ deludente, qui si sono visti pochi progressi verso il promesso e tanto atteso new deal della questione araba. Le aree critiche qui nel Golfo – il ritiro dall’Irak, la questione nucleare Iraniana, le missioni antiterrorismo in Pakistan e Afghanistan – restano ancora largamente sabbiose.
Soprattutto il processo di pace tra Israele e Palestina sembra ristagni a un punto morto, i portavoce americani in medio oriente non hanno preso posizione sugli ultimi insediamenti israeliani in terra palestinese e così facendo hanno avvallato il sospetto che l’America non abbia poi tutta questa gran voglia di rimettere in moto il processo come aveva invece promesso. Gli arabi si stanno chiedendo se Obama vorrà continuare a occuparsi di questioni medio-orientali come puro esercizio di retorica oppure inizierà a darsi concretamente da fare. Si rendono conto che la chiave di volta per cambiare davvero in questa complicatissima zona del mondo è il coinvolgimento personale del Kennedy nero. Intanto l’Europa fa la solita figura della fetta di salame nel panino. Incapace o disinteressata a recitare qualsiasi ruolo e a intraprendere qualsiasi iniziativa. Nessun capo di stato europeo ha visitato un paese del Golfo nell’ultimo anno e il nuovo ministro degli Esteri della CEE, Lady Ashton, ha pensato bene di inaugurare il suo mandato facendosi un giro in Israele e nei territori occupati, mossa che ovviamente non è stata apprezzatissima dai paesi arabi moderati. E mentre l’accordo economico di libero scambio tra Paesi del Golfo e Unione Europea langue su qualche tavolino a Bruxelles gli arabi sviluppano proficue relazioni commerciali con le tigri asiatiche (Giappone, Cina, India, Corea), i leoni africani (Sudafrica, Kenia, Angola) e persino con i puma sudamericani (Brasile, Argentina, Cile).
Dubai nasce una decina d’anni fa dal sogno di Sheikh Mohammed di fondare tra deserto e mare una metropoli moderna, cosmopolita, liberale, aperta al mondo, alle sue numerose fedi e anche ad alcuni suoi eccessi. Cosa che non ha certo riempito di gioia i suoi vicini, primi tra tutti quelli di Abu Dhabi che stavano facendosi una tranquilla nuotatina nel petrolio prima di riprendere il cammello per tornare alla loro tenda e che improvvisamente si sono sentiti una massa di beduini bigotti e retrogradi. Il che ci porta facilmente a concludere che nei prossimi mesi – visto che la piscina di gasolio e la valigetta con le mazzette ad Abu Dhabi ce li hanno ancora – a loro cugino gliela faranno pagare: la scorsa settimana il Governo Federale degli Emirati Arabi Uniti, sede e presidenza Abu Dhabi, ha dichiarato che con il crack di Dubai non ha niente a che vedere. Il che è come dire ai creditori “mia moglie ha abusato della carta di credito, mi dispiace ma io poverino non ne sapevo niente, comunque siamo in regime di separazione dei beni quindi non c’entro, arrivederci”.
Il boom di Dubai è stato alimentato da credito facile, speculazioni immobiliari, un mercato a dir poco scarsamente regolamentato e un governo che ha fatto ricorso a ogni forma di prostituzione, metaforica e reale, per attirare capitali a diversi gradi di liceità. Ingegneri, architetti, imprenditori e intermediari immobiliari sono calati a branchi dall’Europa per partecipare a progetti che più erano abnormi più erano redditizi per loro. Quando nel 2002 lo sceicco ha aperto la proprietà immobiliare agli stranieri un’ondata di gonzi si è precipitata a comprare con in mano giusto un foglio con un progetto e qualche volantino patinato. Nel 2006 una serie di società paragovernative sono state consolidate nella holding Dubai World la cui gestione è stata affidandata a Sultan Ahmed bin Sulayem, un volpone che a sua volta ha chiamato come direttore generale quel Chris O’Donnel che all’epoca mandava avanti un fondo d’investimento immobiliare di notevole successo nella sua Australia natìa. Nel 2007 O’Donnel decide di emettere dei bond e gli investitori si precipitano a comprarglieli tanto che deve raddoppiare l’emissione. Poi si mette in vendita un complesso di ville su Jumeirah Beach Road e va tutto esaurito in un giorno. Le banche concedono mutui al 97% del valore dell’immobile senza indagare granchè sul reddito di chi chiede. Poi a un certo punto, improvvisamente il mondo – o il resto del mondo, come ancora adesso sostengono qui a Dubai – piomba nella recessione. I soldi smettono di fluire e questi einstein della speculazione immobiliare si rendono dolorosamente conto che forse così furbi non erano, probabilmente erano solo più avidi e la pena del contrappasso li pone a subire la stessa legislazione dubaiota che non avendo mai regolamentato troppo il mercato ora non li tutelerà particolarmente dai fallimenti immobiliari che si fanno di giorno in giorno sempre più probabili.Intanto di fronte a casa, dall’altro lato del Marina, la Infinity Tower che sarà un altissimo grattacielo a spirale dal panorama mozzafiato mare da una parte e Marina dall’altra per consegna prevista giugno 2010 continua rumorosamente a crescere notte e giorno.
Fausto Tazzi

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