Berlino Est: il Muro e la parabola della Guerra Fredda

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La sensazione che si prova arrivati a Berlino è quella di una città alternativa, a volte caotica e in continua trasformazione. I turisti cercano il classico centro storico con la piazza principale e i locali, che qui non esiste. Molti tedeschi considerano la propria capitale “non abbastanza tedesca”, prendendo a riferimento altre città come Monaco di Baviera e Colonia. Tutti questi cliché vanno ricercati nei fatti storici che hanno fatto di Berlino una delle protagoniste indiscusse della storia del Novecento: due guerre mondiali, la seconda delle quali la distrusse per il 90%, e un Muro che per 28 anni, dal 1961 al 1989, divise in due la città lasciando una cicatrice che ancora oggi fatica a rimarginarsi. Quando arrivo decido di andare alla scoperta di indizi e luoghi della Berlino Est durante il comunismo.

Potsdamer Platz. La rivincita sul passato

Inizio il giro da Potsdamer Platz, un simbolo di resistenza e rinascita. La prima cosa che colpisce è la sua architettura all’avanguardia con grattacieli che si stagliano in cielo e che le ha valso il nome di piazza più moderna di Berlino. Tuttavia, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, questa piazza era un cumulo di macerie. Quando nel 1945 la Germania fu divisa in quattro zone di occupazione, la parte orientale finì sotto l’influenza dell’Urss e rinominata Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Ma il malumore popolare non tardò a farsi sentire. Nel giugno 1953 ci fu il primo sciopero operaio. Il corteo si snodò per tutta la città, ma quando i manifestanti arrivarono qui, a Potsdamer Platz, si trovarono di fronte una cintura di panzer sovietici che aprirono il fuoco. Ci furono centinaia di morti e migliaia di arresti, anche se il numero esatto è tuttora ignoto. Secondo Ezio Mauro, nel libro “Anime prigioniere”, furono 267 le persone che persero la vita.

Nel 1961 la situazione nella Germania Est continuava a precipitare. In dodici anni circa due milioni e mezzo di tedeschi orientali erano fuggiti a ovest. Walter Ulbricht, capo della DDR, concepì l’unica soluzione possibile: una barriera che dividesse la città impedendone le fughe. Gli eventi successero in fretta. Il 1 agosto telefonò all’unica persona che poteva avallare il suo piano: Nikita Chruščëv, il leader sovietico, succeduto a Stalin nel 1953. “Creeremo un anello di ferro attorno a Berlino che vi aiuterà riducendo le fughe”. Questa la risposta di Chruščëv che si legge nel verbale. Il 3 agosto i paesi alleati del Patto di Varsavia vararono l’operazione barriera. Intanto il materiale stava arrivando segretamente a Berlino. Il 13 agosto 1961 alle una di notte mentre gli abitanti dormivano ignari, furono stese 160 tonnellate di filo spinato per 43 chilometri e 7300 metri cubi di cemento per fermare i collegamenti. Il primo passaggio ad essere bloccato fu proprio qui, a Potsdamer Platz, come ricorda una targa di acciaio che si trova a terra “Berliner Mauer 1961-1989”. La mattina seguente gli abitanti si resero conto che le loro vite erano cambiate per sempre. Era nato il Muro di Berlino.

Le stazioni fantasma

Prendo la metro e mi fermo alla stazione Nordbahnhof, una delle tante testimonianze di questa follia autoritaria. Entrando sembra che il tempo si sia fermato. Ci sono ancora i caratteri gotici ad indicare l’entrata e l’uscita. Era una delle sedici stazioni fantasma della Berlino Est. Le linee delle metro partivano dal settore ovest, attraversavano quello est per poi ultimare la corsa di nuovo a ovest. Nei 28 anni di Muro non furono interrotte, ma per evitare le fughe dei cittadini gli accessi delle metro ad oriente furono murati. Non uno, ma ben tre muri di sbarramento vennero eretti, come testimonia la targa di acciaio all’entrata della metro “Sperrmauer 1961-1989”.

Berlino, una stazione fantasma. Foto di Elisa Treppaoli

Berlino, una stazione fantasma. Foto di Elisa Treppaoli

Il Memoriale del Muro. Storie di fuga verso la libertà

Mi dirigo verso il Memoriale del Muro, uno spazio aperto in cui capisco tutta la forza fisica e psicologica di questa barriera. Il tutto era iniziato con 43 chilometri di filo spinato che poi divennero 156. Nelle campagne le reti difensive furono rafforzate con mine e mitragliatrici con comando a distanza. Nel cuore di Berlino invece, il filo spinato fu sostituito da due blocchi paralleli di cemento. Mi avvicino ad uno di questi e spio attraverso una fessura. Lì passava la lingua di terra conosciuta come “striscia della morte”. Era lo spazio tra i due muri, ricoperto di trappole mortali e di sabbia rastrellata per individuare le orme di eventuali fuggiaschi. In alto è rimasta la torre di sorveglianza originale. Lungo il muro ce n’erano 302. Provo ad immaginare la paura degli abitanti di Berlino Est; il muro vicino a cui sto passeggiando era illuminato e sorvegliato ad ogni ora. I soldati giravano con cani alimentati ogni due giorni e a cui venivano limati i denti. L’ordine era chiaro: sparare e uccidere a vista chiunque avesse tentato di superare il muro.

Eppure la tirannia non scoraggiò il sentimento di libertà. In 28 anni 5000 tedeschi dell’est riuscirono a superarlo, alcuni nei modi più impensabili. È il caso delle famiglie Strelzyk e Wetzel, che la notte del 16 settembre 1979 raggiunsero la Germania ovest a bordo di una mongolfiera di taffetà. L’impresa è raccontata nel film “Balloon – Il vento della libertà”. È anche la storia a lieto fine del “tunnel 29” scavato dagli italiani Domenico Sesta e Luigi Spina. Con i finanziamenti della rete americana Nbc riuscirono a comprare gli attrezzi necessari e scavare un passaggio che il 14 settembre 1962 portò in salvo 29 persone. L’impresa fu fotografata dai giornali occidentali e le immagini sono state esposte nel Memoriale.

Si stima che 192 persone morirono cercando di passare ad ovest. Mi avvicino ad un pannello espositivo in cui sono esposte le fotografie di alcuni di loro. Tra le morti più tragiche ci fu quella del diciottenne Peter Fechter. Insieme ad un amico avevano pianificato di attraversare la striscia della morte e arrampicarsi sul secondo muro. All’altezza del blocco di cemento le guardie iniziarono a sparare. L’amico riuscì a scavalcare, ma Peter fu colpito al bacino. Rimase un’ora agonizzante sulla striscia della morte. Morì dissanguato. Le televisioni occidentali ripresero la scena e tuttora è possibile rivivere quegli attimi drammatici su YouTube.

La foto di Peter Fechter al Memoriale del Muro di Berlino. Foto di Elisa Treppaoli

La foto di Peter Fechter al Memoriale del Muro di Berlino. Foto di Elisa Treppaoli

Fuggire era difficile, perché la DDR aveva creato una macchina della paura che teneva sotto scacco tutti gli abitanti: la Stasi. Con un esercito di 110 mila agenti e 190 mila inofizielle Mitarbeiter, informatori non ufficiali, spiava la vita dei suoi 16 milioni e mezzo di abitanti. Come si vede nel film “Le vite degli altri” gli agenti entravano nelle case piazzando microspie e trascrivendo ogni singola parola detta per decidere sulla vita stessa delle persone. Questi rapporti sono ora consultabili. A Dresda tra il 1985 e il 1990 operò un agente del KGB sotto copertura, fingendo di lavorare per la Stasi come interprete. È la stessa persona che oggi sta scuotendo il panorama internazionale: Vladimir Putin.

La caduta a sorpresa

La caduta del Muro il 9 Novembre 1989 fu un evento tanto scioccante quanto imprevisto. È il giornalista Michael Meyer a spiegare cosa stava succedendo. In Ungheria il leader comunista Miklós Németh tagliò il filo spinato che divideva il paese dall’Austria permettendo ai tedeschi dell’est in vacanza di fuggire. In Polonia il movimento di ribellione Solidarność fu riconosciuto e concorse alle elezioni di giugno per poi vincerle. Tutto questo fu possibile perché a Mosca nel 1985 era salito al potere Michail Gorbačëv, che abbracciò una politica più liberale. Gli unici stati del blocco ancora arroccati su una linea intransigente erano la DDR di Honecker e la Romania di Ceaușescu. Nel giro di poco il SED, il partito-stato nella DDR, non ebbe altra scelta che spingere alle dimissioni Honecker il 18 ottobre 1989 ed eleggere Egon Krenz. Quello che successe il 9 novembre 1989 è storia.

Attraverso la strada e raggiungo il Centro Visitatori del Memoriale dove proiettano le immagini di quella giornata. Quel pomeriggio era stata convocata una conferenza stampa. Krenz diede al collega Günter Schabowski l’ultima delibera in cui si permetteva ai cittadini dell’Est di andare all’estero senza presentare domanda. Schabowski era appena tornato dalle ferie e non ne conosceva i dettagli. Entrò nella sala dove era convocata la stampa e lesse. Il corrispondente italiano dell’Ansa Riccardo Ehrman alle 18.53 fece la fatidica domanda: “Da quando?”. Schabowski cercò nel documento la data, senza trovarla. La risposta fu “sofort”, “subito”. Era l’inizio della fine, anche se a non capirlo furono proprio gli esponenti della DDR. Le persone iniziarono a riversarsi in strada in decine, centinaia, migliaia di fronte al Checkpoint Charlie fino a quando il comandante Harold Jäger diede l’ordine di alzare le sbarre. Era la fine del Muro di Berlino. Era la fine della Guerra Fredda.

Salgo all’ultimo piano del centro dove si ha tutta la visuale sulla striscia della morte. In lontananza spicca la Torre della Televisione, situata in Alexanderplatz, il cuore della Berlino Est. Con i suoi 220 metri di altezza è la struttura più alta della città. Inaugurata il 3 ottobre 1969 era il simbolo della DDR. La stessa forma ovale ricorda le imprese spaziali, come lo Sputnik, il satellite sovietico che per primo fu mandato in orbita.

Il Muro di Berlino e la Torre della Televisione dal tetto del Memoriale del Muro di Berlino. Foto di Elisa Treppaoli

Il Muro e la Torre della Televisione dal tetto del Memoriale del Muro di Berlino. Foto di Elisa Treppaoli

La storia si ripete

Riprendo la metro per raggiungere l’ultima tappa: la East Side Gallery. Si tratta di un chilometro e mezzo di muro originale dipinto da artisti di tutto il mondo. Il murales più famoso è il bacio tra il leader della DDR Honecker e quello sovietico Breznev, i sostenitori della linea dura del comunismo. Come tante altre persone mi siedo sull’erba davanti al Fiume Sprea, ascoltando una coppia di musicisti. Faccio fatica ad immaginare che poco più di trent’anni fa i tedeschi che vivevano qui non potevano attraversare il fiume per andare ad ovest se non a rischio della loro stessa vita. Eppure oggi come allora la storia si ripete. Oggi come allora il terrore russo è tornato in Europa orientale dividendo famiglie e mietendo vittime. Oggi come allora la gente si ribella, mossa all’unisono da un unico stendardo: quello della libertà.

In copertina: Berlino, East Side Gallery, foto di Elisa Treppaoli

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