Cambogia, il paese che torna a sorridere. Viaggio nei luoghi del genocidio di Pol Pot

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Quando parto per la Cambogia, decido di iniziare il mio viaggio da Phnom Penh. Ho necessità di capire cosa è stato il regime di Pol Pot e gli impatti che ha avuto sulla popolazione. È in questa città, capitale del paese, infatti, che ha origine uno dei genocidi più cruenti del Novecento, e anche uno dei più dimenticati, quello che fu perpetrato in Cambogia dal 17 aprile 1975 al 6 gennaio 1979. È difficile fare una stima esatta del numero di vittime. Secondo studi dell’Università di Yale e del Minnesota la cifra oscillerebbe tra 1,5 e 3 milioni di persone, oltre il 20% della popolazione morta a causa di lavori forzati, fame, malattie e brutali uccisioni, per la maggior parte di loro non è stato sparato un colpo di arma da fuoco.

Leggi anche: Cambogia, altre memorie da conservare (di Eliano Ricci, 2014)

Cambogia, una pedina nella Guerra Fredda

Il responsabile di questa carneficina è il partito comunista dei Khmer rossi guidato dal leader Pol Pot. Nel giro di pochi anni questo capo proveniente dalla classe benestante cambogiana, un passato di studi in Francia e soprattutto infarcito di ideologia marxista, mise in atto un’opera di ingegneria sociale contro la sua stessa popolazione con una metodicità simile a quella che i nazisti avevano messo in atto trenta anni prima. L’obiettivo era quello di creare una società egualitaria fondata sull’agricoltura, qualcosa di simile all’esperimento fallimentare che Mao Zedong aveva fatto in Cina con le comuni popolari dal 1958 al 1961.

Capire perché si è arrivati a questo significa considerare il complesso scenario internazionale degli anni Settanta. La storia della Cambogia va letta alla luce della Guerra Fredda e si intreccia indissolubilmente con la guerra in Vietnam, suo paese confinante. Ce lo racconta il primo giornalista italiano che era in Cambogia poco prima dell’arrivo dei Khmer rossi, che ha rischiato di essere ucciso da questi nel tentativo di attraversare il confine dalla Thailandia e che era di nuovo lì a documentare gli orrori perpetrati da Pol Pot e dai suoi seguaci nel 1979: Tiziano Terzani.

Nel 1954 i tre paesi dell’Indocina, Vietnam, Laos e Cambogia ottennero l’indipendenza dalla Francia. In Cambogia salì al potere il  sovrano Norodom Sihanouk, che allo scoppio della guerra in Vietnam fece di tutto per mantenere neutrale il paese. Da una parte permetteva ai nordvietnamiti e ai Viet Cong di passare con il sentiero di Ho Chi Min attraverso le giungle remote cambogiane per giungere nel Vietnam del Sud. Allo stesso tempo permetteva agli Stati Uniti di bombardare quella striscia di terra con i loro B-52. Le cose continuarono così finché nel marzo 1970 gli americani decisero che Phnom Penh doveva diventare la testa di ponte per supportarli nella guerra contro i nordvietnamiti.

Mentre Sihanouk era in visita ufficiale a Mosca e a Pechino, la CIA lo depose con un colpo di stato mettendo al suo posto il ministro filoamericano Lon Nol. Sihanouk cercò protezione dalla Cina e si alleò con i Khmer rossi, in quel momento un gruppo di guerriglieri filo-comunisti che non contavano più di duemila persone e che si nascondevano nella giungla cambogiana. Quello che successe tra il 1970 e il 1975 fu un’escalation della guerra nei due paesi. I bombardamenti americani si intensificarono in altre parti della Cambogia; i vietnamiti per sfuggirvi si addentrarono nel paese; i contadini per salvarsi dai B-52 si rifugiarono nella capitale; altri iniziarono ad ingrossare le fila dei Khmer rossi. A gennaio 1975 i guerriglieri erano alle porte di Phnom Penh, era chiaro che gli americani non avrebbero vinto la guerra in Indocina. Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi entrarono a Phnom Penh. Il 30 aprile 1975 i Viet Cong entrarono a Saigon.

Per la Cambogia sembrava arrivato il momento di ritornare alla pace e i Khmer rossi vennero accolti come liberatori. Ma quello che successe dopo fu l’inizio di un grande incubo.

I Khmer rossi al potere

Quando i Khmer rossi arrivarono nella capitale, la prima cosa che fecero fu di svuotarla completamente. In soli tre giorni trasferirono tutta la popolazione, compresi donne, bambini e malati degli ospedali nelle campagne. Dopo di che, iniziarono a mettere in atto la loro idea utopica di nazione paritaria senza proprietà privata, capitalismo e in cui ogni individuo non rispondeva più al concetto tradizionale di famiglia, ma all’entità superiore Angkar, il partito comunista.

Per fare questo iniziarono una vera e propria caccia all’uomo eliminando tutti coloro che rappresentavano il vecchio ordine: ex-funzionari governativi, intellettuali, dottori, professori, monaci. A Phnom Penh ci sono due luoghi che testimoniano come ciò avvenne, il Museo S-21 e il memoriale Choeung Ek. Per la visita decido di farmi guidare da Lina, una ragazza di trent’anni nata e cresciuta nella capitale, che dopo una laurea in economia e un tirocinio in azienda ha scoperto che la sua vocazione era un’altra, fare la guida turistica e parlare del suo paese ai viaggiatori.

Museo S-21, foto dei prigionieri

Museo S-21, le immagini segnaletiche dei prigionieri. Foto di Elisa Treppaoli

Gli interrogatori della Prigione S-21

Inizio dal Museo S-21, la prigione in cui venivano rinchiusi gli accusati. Appena entrata noto un ampio cortile interno circondato da una struttura a ferro di cavallo a due piani con stanze della stessa dimensione. Inizialmente era una scuola, il liceo Tuol Sleng, riconvertito in prigione con il nome di S-21, Ufficio di Sicurezza 21. Le persone accusate di tradimento venivano portate qui, registrate con nome, data di ingresso e foto. Dopo di che iniziavano le torture per estorcere le informazioni.

Entro nella prima stanza. Una scrivania con dietro una sedia in cui sedeva l’aguzzino. Di fronte una rete di metallo su cui si sdraiava il condannato e una barra di ferro che veniva messa alle caviglie per evitarne la fuga. Le mani legate dietro la schiena con un filo di ferro. Infine un contenitore con acqua per far rinvenire il prigioniero e continuare le torture. Lina mi dice che qui erano sottoposti agli interrogatori: “Quale era il tuo lavoro prima? Parli inglese o francese? Lavori per la CIA?”. Queste persone non sapevano cosa fosse la CIA ma erano costrette ad ammetterlo per far cessare le sofferenze. Una volta ottenuta la confessione, l’intera famiglia del condannato avrebbe subito la stessa fine, donne, bambini o anziani che fossero.

Le stanze si ripetono uguali. In alcune sono esposte le foto e le pile di vestiti ritrovati. Salgo al primo e al secondo piano dove un lungo corridoio separa due file di celle anguste in cui erano rinchiusi i prigionieri. Se non morivano per le torture inflitte venivano portati a Choeung Ek, conosciuto anche come “killing field”, campo di sterminio. Le uniche persone che sopravvissero a questa prigione furono sette uomini e quattro bambini. Quando esco dal Museo incontro due di loro, Chum Mey e Norng Chan Phal. Il primo era uno dei sette uomini che riuscì a salvarsi, essendo un meccanico fu usato dai Khmer per riparare le macchine da scrivere con cui venivano estorte le confessioni. Il secondo era un bambino di nove anni che si nascose sotto una pila di vestiti insieme al fratello minore e a due bambini di due anni e sei mesi poco prima della liberazione da parte dell’esercito vietnamita, evitando così di essere trasportati al “killing field”.

Museo S-21, stanza delle torture

Museo S-21, stanza delle torture. Foto di Elisa Treppaoli

La morte a Choeung Ek

Insieme a Lina prendo il tuk tuk che in trenta minuti arriva al campo di sterminio Choeung Ek. Originariamente era un cimitero cinese che i Khmer rossi, vista anche la zona periferica, convertirono in luogo di esecuzione. Una stupa buddhista svetta in alto accogliendo i visitatori proprio all’ingresso. Qui sono contenuti oltre ottomila teschi umani divisi per età e per genere, il bollino blu indica gli uomini, quello rosso le donne. Sulla parte inferiore si trovano gli abiti delle vittime e gli strumenti usati per ucciderle: canne di bambù, foglie affilate di palme, bastoni di legno, asce, zappe.

Inizio il percorso di visita, lo stesso dei prigionieri. Venivano trasportati qui dalla prigione S-21 di notte, evitando così sguardi indiscreti. Una volta scesi, con mani legate ed occhi bendati, aspettavano il loro turno. In una zona più isolata venivano fatti inginocchiare, colpiti da dietro e gettati nelle fosse comuni. La musica ad alto volume copriva le loro urla. Per essere sicuri della morte e coprire gli odori, i Khmer gettavano sulle fosse sostanze chimiche come DDT. Si stima che oltre quattordicimila persone dalla prigione S-21 siano state trasportate qui.

Ad oggi sono state individuate centoventinove fosse comuni di cui ottanta aperte. Quelle presenti nel percorso sono di tre tipi: una con il corpo di quattrocentocinquanta vittime comuni. Un’altra con donne e bambini nudi. Un’altra ancora contenente corpi senza teste. Questi ultimi erano di Khmer rossi accusati di tradimento. Durante il regime di Pol Pot infatti molti soldati non condivisero i metodi del partito e cercarono di fuggire in Vietnam. Percorro l’ultimo tratto fino ad arrivare ad un albero con tanti lacci colorati. Qui neonati e bambini presi per le gambe venivano sbattuti e poi gettati nella fossa vicina. Esco senza dire una parola e riprendo il tuk tuk per il centro.

Killing tree

Il “Killing tree” a Choeung Ek, foto Elisa Treppaoli

Quale futuro per la Cambogia?

L’orrore del regime di Pol Pot ebbe fine il 7 gennaio 1979 quando le truppe vietnamite entrarono a Phnom Penh. Che cosa ha significato questo genocidio per il popolo cambogiano? La prima conseguenza è sicuramente sociale: trecentomila cambogiani nei campi profughi della Thailandia, donne rimaste vedove, migliaia di bambini finiti negli orfanotrofi dove scarseggiava cibo ed era difficile insegnare anche le fondamenta dal momento che quasi tutto il corpo docente era stato ucciso, come spiega Norng Chan Phal, il bambino sopravvissuto alla Prigione S-21, cresciuto nell’orfanotrofio Preah Ang Eng School di Phnom Penh.

Lo sforzo attuale per ricostruire l’economia è ancora in essere, basti pensare che non esiste una rete ferroviaria. Quello che vedo è un popolo che porta con sé una cicatrice chiusa ma ancora dolorante, che non vuole dimenticare il passato ma allo stesso tempo lotta per un futuro migliore. “Adesso sappiamo come proteggerci. Sappiamo ciò in cui credere e ciò in cui non credere”. Le ultime parole di Lina prima di salutarla.

Foto di copertina: Museo S-21, Phnom Penh, di Elisa Treppaoli

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