Cara Fabbrica / Gustavo e...il succo d'uva

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

SuccoduvaEra una fabbrica? Non lo so… comunque vi si produceva succo d’uva; spremevamo il frutto meraviglioso della nostra terra veneta che veniva portato dalla campagna trevigiana per fare un succo dolce e ambrato. Questo poi finiva per lo più sulle tavole dei villeggianti austriaci o nei dolci di molte pasticcerie d’oltralpe.

Mi piaceva molto lavorarci e siccome ero lì da circa sei anni, oramai conoscevo tutto il personale ed ogni anfratto sperduto della ditta; a volte ci dormivo pure in fabbrica… sdraiato sul piccolo divano nell’ufficio del vice direttore che tollerava che me ne stessi lì specie certe sere invernali quando lavoravo fino a tarda sera e poi il mattino dopo dovevo esser lì presto; ma non mi diceva nulla. In fondo io lo coprivo per quel flirt che aveva con la Marika, la rumena che due anni prima aveva conosciuto nel lap-dance più vicino, quello dove andava a distrarsi quando sua moglie cominciava con la solita solfa che si sentiva sola e trascurata e che lui non l’amava più eccetera eccetera…e lui così sera dopo sera della moldava si era proprio innamorato.  Quando lui usciva con lei, io lo coprivo: sua moglie pensava che uscissimo assieme per un bicchiere  o stessimo a cena a parlar di lavoro e di affari con qualche cliente…ed invece loro due, gli amanti, si chiudevano in qualche alberghetto fuori provincia a far l’amore tutta la notte….e così io dormivo in ufficio e non correvo il rischio che qualcuno in paese mi vedesse da solo in giro senza di lui… che poi sua moglie quando andava dalla Norma, la parrucchiera o chiacchierando come faceva di solito con la bidella delle elementari dove portava la più piccola, avrebbe di sicuro scoperto tutto.

Avevo trascorso quella notte raggomitolato nella giacca, era aprile, ma faceva ancora freddino  e succoduva2quando mi svegliai allo squillo del cellulare che avevo puntato  sulle 7:00, mi alzai di soprassalto e decisi di andare a far colazione al bar all’angolo: sapevo che apriva alle sette e avrei letto con calma il quotidiano prima di rientrare in ufficio. Quando c’arrivai, notai subito un avventore diverso dal solito, era una donna, alta, mora, molto elegante. Stonava con quel bar di provincia dove eravamo abituati alla buona. Avrei scoperto più tardi  che era una francese arrivata da noi per l’acquisto di una partita di succo d’uva per una catena di pasticcerie di Lione. Con l’occasione si era fatta un giro a Venezia e dintorni: si capiva dalla borsa-souvenir che aveva in bella mostra il fiero Leone di San Marco.

succoduva1La conobbi di lì  a poco, quando, rientrato in ufficio parlò con me e con il direttore. Le strinsi la mano con grande piacere e le dissi che le avrei potuto mostrare tutta l’azienda, se lo avesse gradito; dentro di me mi auguravo che mi dicesse di sì. Subito infatti dimostrò molto entusiasmo per la mia proposta e l’accompagnai prima nel reparto produzione e dopo in quello imbottigliamento, imballaggio e spedizioni. Pensavo che facendo così forse avrei potuto rimediare la sua attenzione e magari la sera sarebbe pure uscita con me in quel ristorantino in riviera che conoscevo da anni: intimo e raffinato.

Quando arrivammo nel settore “C”, quello dell’imbottigliamento, la francese rimase affascinata dall’intrico di tubi e di flessibili e mi disse che le ricordavano un’astronave…che fantasia, pensai tra me e me. Intanto la convinsi a togliersi la giacca con la scusa che avrebbe rischiato di impolverarla.

Al momento nel reparto c’erano solo due addetti all’impianto, in succoduva3particolare alla vasca di raccolta e di certo non badavano a noi due. Quando girammo l’angolo per svoltare nel reparto “B” e rientrare dalla visita, pensai che quello era l’unico momento adatto e mi decisi ad avvicinarla. Le chiesi a bassa voce e con la discrezione che sapevo usare a bella posta con certe donne, se per caso la sera fosse libera e avesse voglia di uscire con me: l’avrei portata a cena “Dal Doge”, uno dei migliori posti della riviera del Brenta e le diedi l’indirizzo. Il bianco fresco e frizzante avrebbe fatto la sua parte.

Lei all’inizio pareva stralunata, ma subito disse che era libera e che si poteva fare verso le 21:00. Quando tornati in ufficio,  venni richiamato al primo piano per una telefonata urgente dall’Austria, la lasciai con il caporeparto, l’amico Contin che avrebbe saputo cavarsela bene e continuare l’illustrazione degli altri settori.

Dopo la telefonata, ridiscesi al reparto “D” dove però non vidi più Josephine. Così si chiamava la signora. Immaginavo che stesse col Contin e che lui cercasse di spiegargli come era suddiviso il lavoro, come erano i reparti, quali fossero le quantità prodotte di succo, quali le uve e di che provenienza. E così me ne andai con due buoni clienti che seguivo io da tempo. Trascorsi il pomeriggio a pensare dove l’avrei portata il dopocena…a passare un’oretta con della buona musica o a casa mia?

Mi disse poi il Contin che in realtà Josephine, mentre visitava la ditta, appariva distratta  e sovrappensiero: forse stava pensando anche lei alla nostra serata?

Nel pomeriggio il lavoro sembrava non finire mai e rimuginavo le solite cose: da quando Luisa mi aveva lasciato per quello skipper giramondo di Chioggia, le donne appena conosciute prendevano per un po’ tutta la mia attenzione e non riuscivo a pensare ad altro che a loro.

foto (2)Rientrai a casa verso le 19:00 e cercai di sgattaiolare per il settore “D” dove incontrai l’ispettore della sicurezza che si fermò a parlare un po’ con me, riempiendomi di battute come al solito; io tagliai corto e sgusciai via veloce verso l’uscita. Affrettai il passo, rischiando di impigliarmi nella gabbia dei contenitori di anidride solforosa, ma elusi l’attenzione dell’ispettore e arrivai al parcheggio.

Alle 20 precise ero già al ristorante Dal Doge, ma dovetti attenderla almeno per un’ora e, non avendo il suo numero, non potei chiamarla né avere un suo messaggio…Mi ordinai una sogliola che mi fu servita come al solito ottima ma mi parve più pallida del solito e fredda come era diventato tutto attorno a me; nemmeno il bianco frizzante mi riaccendeva: oramai la serata era andata e se ne era andata anche la mia autostima, L’indomani scoprii dalle confidenze del custode che la sera tardi aveva visto uscire l’ispettore stretto stretto ad una signora, che era in tutto e per tutto la francese.

Mi promisi che non avrei più corteggiato una donna. L’ho fatto: ora sto felicemente con Nando, pochi capelli, ma dei gran baffi neri… niente di francese, molto di mediterraneo.

 Bruna Mozzi

Leggi Cara Fabbrica/Storia di Sante

——————————————————————————-

brunamozziPerché “racconti in fabbrica”? no, non li scrivo nelle pause di lavoro ad una pressa o ad una macchina da cucire, ma seduta davanti al mio PC nello studio di casa… eppure col pensiero costantemente rivolto a tutto quanto la fabbrica rappresenta: lavoro e dignità per chi in essa negli anni passati, Settanta-Ottanta, ha visto il riscatto da una condizione di povertà e di emarginazione, si pensi ad un Nordest prima contadino e poi locomotiva dell’Italia  – o a Terni o a Taranto o a Bagnoli e  alla grande industria di Stato o anche alle grandi fabbriche tra Lombardia e Piemonte, come la grande mamma FIATche ha motorizzato l’Italia. Ma anche alla fabbrica che rappresenta la fatica, il sudore, il quotidiano rischio della vita, l’ammalarsi di cancro ai polmoni e morire a forza di inalare amianto o diossina; la fabbrica dei licenziamenti, delle lotte degli operai e talvolta dei quadri, la fabbrica dei cassintegrati, degli occupanti più duri che si incatenano ai cancelli per mantenere il loro posto a 1000 euro al mese.

Il lavoro che talvolta uccide, ma che in altre occasioni genera incontri, intreccia vicende, fonde assieme sentimenti e emozioni. Dignità e vergogna, orgoglio e paura…a vederla in letteratura, la fabbrica è questo: poesia del vissuto, storie del quotidiano immaginate o profondamente vere per ricordare che la nobile parola su cui si fonda la nostra Repubblica – lavoro – non può essere solo quel po’ di inchiostro che qualcuno vorrebbe buttato  a caso ad imbrattare un foglio di carta, ma un ideale da perseguire e assicurare ai nostri figli.

Non solo parole, anche foto: nello stile che piace a me e che da un po’ mi spinge a riflettere.

Bruna Mozzi

Foto di Danilo Cazzaro

Il copyright è riservato

Ti potrebbe interessare