Cara Fabbrica/ Le mie amiche cinesi

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Erano diventate le mie amiche preferite poco dopo il loro arrivo a Padova:  un paio di anni prima erano passate in Italia ammassate in uno di quei pulmini da 15/20 posti in cui pare sempre mancare l’aria, dai finestrini entra una bava di vento ed esce il tanfo di chi viaggia da giorni. Avevano viaggiato prima in aereo con Air China per almeno 13 ore fino a Francoforte, poi da lì in treno fino al confine tra Austria e Italia e poi, come al solito, le avevano prelevate quegli uomini cinese4che fanno la tratta; più spesso cinesi, altre volte italiani che fanno questo sporco “lavoro”.

Ma Chia-ki e Su-mie, entrambe dalla regione dello Zhejiang, al loro arrivo a Padova erano felici: glielo si leggeva negli occhi che al vedere la città anche nella sua più grigia periferia – era una giornata nebbiosa di tardo novembre – speravano di aver finito le loro sofferenze. Αvevano sperato tanto in quel viaggio: costava settemila dollari e ne avevano pagato duemila, il resto lo avrebbero saldato lavorando per il loro protettore. Era un tipo losco, uno di quei cinesi che sembravano usciti da un gangster movie, in cui mafia e affari s’intrecciano alle spalle di poveri innocenti. Era un tipo sempre unto di sudore, coi capelli appiccicaticci e andava pazzo per il gelato fritto che si faceva preparare dalle ragazze insieme a ben altro. Un essere detestabile, che non meritava nulla.

Io le avevo conosciute in un bar della zona industriale su verso la fine di Corso Stati Uniti, dove si erano rifugiate quel sabato sera di gelo e nebbia, mentre attendevano un loro connazionale per andare a Verona a trovare un’amica di Chia-ki. No, non eravamo prostitute: si trattava di lavoro in fabbrica, se così lo si poteva chiamare. Allora lavoravo in una tipografia artigianale, stampavamo cataloghi pubblicitari e manifesti, roba piccola: era un fabbricato grigio, anonimo, al limite est della zona industriale e loro invece stavano chiuse in un laboratorio ricavato abusivamente da un capannone appena fuori città.

Del loro lavoro mi avevano parlato dopo qualche mese che avevamo stretto amicizia. La più sincera delle due e tipografiaquella cui io mi affezionai di più era Su-mie che aveva si e no 25 anni. Era magra, piccola, minuta, dai capelli neri che teneva raccolti in alto a coda di cavallo. Molto diversa da Chia-ki che invece era una cinese anomala: tonda e cicciona con i capelli cortissimi e le mani grandi che mi spaventavano tanto che io evitavo di sedermi vicino a lei al bar o quando ci si trovava per due chiacchiere. E questo succedeva di rado perché uscivano solo ogni 15 giorni: nel loro laboratorio il capo era un despota e le comandava a bacchetta. Dettava loro i ritmi di lavoro che potevano essere di turni lunghissimi: mi raccontavano che lavoravano anche 12/15 ore di seguito, sempre sedute alla macchina da cucire o alla macchina per sfilettare o alla stiratrice. Una pausa di 4 minuti per la pipì a metà del turno e se avevano le mestruazioni altri due minuti per cambiare l’assorbente. Per il resto dovevano star col capo chino e un filo di luce spesso ad intermittenza che scendeva dal neon giù dalle travi di cemento. Su-mie infatti si era già indebolita parecchio di vista, da quando lavorava al laboratorio, ma resisteva, per pagare il viaggio e riscattare la sua libertà e poi voleva risparmiare qualche soldo per andare da sua sorella a Milano. Lei si che era stata fortunata, aveva trovato posto in un negozio di italiani perché aveva studiato bene la lingua e ci sapeva fare a vendere le scarpe ai clienti del centro. Me la descriveva come una ragazza intelligente: un modello da imitare per lei che invece si vedeva brutta e spesso – diceva – si sentiva stupida e inutile.

cinesi1Io continuavo il mio lavoro: tutto il giorno stampavo in serigrafia e  piegavo i cataloghi di varie misure che poi mandavamo nei supermercati in città e in provincia. La ditta andava abbastanza bene ed io che ci lavoravo da cinque anni, sopravvivevo, così da portare a casa due soldi per mia madre che viveva di una misera pensione di invalidità. Mio padre non c’era più dal giorno in cui un’auto l’aveva investito: e non sapevamo chi ringraziare.

L’amicizia con Chia-ki e Su-mie mi scaldava dal freddo di quei giorni invernali del 2001 che passarono più velocemente; Su-mie, soprattutto, nonostante non sapesse che poche parole di italiano, sapeva prendermi per il verso giusto e ascoltarmi quando avevo un problema. Era forse perché i loro problemi erano più gravi dei miei che io mi sentivo leggera quando parlavo con loro e a Su-mie avevo anche cominciato a dare un filo di speranza.

La proprietaria della tipografia in cui lavoravo, certa Santina, una donna che sapeva il fatto suo, una di quelle dritte che erano salite qui al nord negli anni settanta e che si era fatta da sola, diceva di volermi aiutare e dato che le stavo simpatica, ogni tanto mi dava una mancia in nero “per potermi prendere – diceva – qualche sfizio”. Era solo un cinquantone, ma mi bastava per comperarmi ogni tanto le Marlboro oppure per offrire la pizza da Silvio alle mie amiche cinesi.

Una volta volli chiederle se avrebbe potuto aiutare quelle due povere ragazze e, per impietosirla, le dissi in che condizioni lavoravano giù nel capannone: in quel periodo di piogge e nebbia era pieno di umidità con le pareti che colavano acqua, tra l’altro proprio dove c’erano le macchine e le prese di corrente. Mi stavo sempre più preoccupando per le mie amiche: e questo mi faceva bene, mi sentivo viva ed utile, mi ero quasi scordata di Denis che lavorava con me alla tipografia e con cui avevo una storia ormai agli sgoccioli. Lui si faceva di marijuana troppo spesso e da poco era cinese2passato ad altra roba più pesante; non era più quello che avevo conosciuto l’anno prima. La compagnia di Su-mie e Chia-ki mi aiutava a dimenticarlo e a pensare di più a me e a loro.

Santina, a cui sempre più spesso chiedevo aiuto per le cinesi e la supplicavo se poteva fare qualcosa per loro, come trovar un altro lavoro o farle andare a Modena da quei suoi parenti che avevano – mi diceva – un maglificio, un giorno mi raggiunse mentre lavoravo alla macchina offset dei manifesti e mi prese in disparte: “E’ tutto a posto – disse – tu fai uscire le tue amiche dal laboratorio, dì loro che si portino qualche cosa per il viaggio e che facciano attenzione a non farsi vedere…al resto ho pensato tutto io”.

Avevamo progettato di farle uscire di sera tardi, dopo la fine del loro turno, che quel giovedì era dalle 12 alle 22: si erano preparate tutte le loro cose, poche indumenti e le foto di mamma e papà dentro una borsa e, come eravamo d’accordo, erano pronte per le 23 nella porta sul retro. Dopo la pioggia di quei giorni, lì era pieno di pozzanghere e ad uscire da quella porta ci si impantanava fino alle caviglie, ma non c’erano altri passaggi.

Le attesi per una buona mezz’ora dove d’accordo e poi vidi arrivare da sola trafelata, bagnata e inzaccherata di fango fino alle ginocchia solo Cha-ki; “E Su-mie?” esclamai spaventata. Mi fece capire a stento con poche parole interrotte dai singhiozzi che era successo qualcosa di grave.

Quando arrivai al cortile del capannone, aveva smesso di piovere e c’era solo una nebbiolina di gocce umide nell’aria, gocce che appesantivano il buio ed impedivano di vedere bene anche sotto il lampione in strada. A stento riuscii a scorgere Su-mie per terra: era riversa nel fango e non respirava più. All’improvviso sentii un parlottìo in cinese cinese3e dialetto veneto e vidi che due sagome scure, che distinsi come un uomo e una donna, stavano prendendo una coperta o un telo da un’auto bianco avorio, come quella di Santina, e si avvicinavano al capannone. Mi si chiarì tutto.  Santina era d’accordo col cinese per portare via le ragazze. Seppi infatti che Santina – maledetta megera – aveva tramato per portare le due mie amiche a Modena, non per il lavoro nel maglificio dei parenti, come aveva promesso a me, ma per metterle nel giro del marciapiede.

Da allora non so che fine abbia fatto Cha-ki. Me ne scappai spaventata a gambe levate. Sapevo che con certa gente non si scherzava. Al lavoro non ci andai più. Mi iscrissi ad un corso serale e quest’anno, tra qualche mese, mi diplomo infermiera.

Bruna Mozzi

foto Danilo Cazzaro

Leggi le storie del blog Cara Fabbrica

Ti potrebbe interessare