Cultura libera, il festival del no-copyright

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Giovedì scorso si è svolta a Barcellona la quinta edizione degli Oxcars: il gran galà della cultura libera e del no-copyright, che celebra le creazioni e le distribuzioni culturali realizzate sotto il paradigma della cultura condivisa. Parole d’ordine nuovi modelli di business culturale, libertà di espressione e condivisione e nuove tecnologie.

Come sempre una grandissima affluenza nelle bella cornice della Sala Apolo, per applaudire i nuovi eroi della cultura dello scambio e della libertà di informazione. Ma anche per fischiare i cattivi. Come per esempio la scrittrice Lucia Etxebarría, il cantante dei Jarabe de Palo e Miguel Bosé, che si sono schierati a favore di un inasprimento delle leggi per la difesa del copyright.

 

Cultura libera naturalmente non vuol dire cultura gratuita, ma presuppone l’idea di sbarazzarsi di un modello dominato dalle lobby dell’industria culturale. Il copyright spesso viene difeso in nome degli artisti, ma in moltissimi casi sono gli artisti stessi ad opporvisi, perché raramente difende davvero i loro diritti e ancor più raramente porta loro benefici economici.

Pongo un esempio concreto attinto dalla mia esperienza personale. Io ho scritto un paio di libri, che sono protetti da copyright (non mi è stata data scelta). In entrambi casi il copyright non è mio, l’ho dovuto cedere alla casa editrice nel momento della firma del contratto, e alla fin fine su ogni copia di un libro venduto in libreria tra i 12 e i 14 €, guadagno circa tra i 50 e i 90 centesimi. Difficile definire questo un modello culturale che mi difende come autore. Lo stesso vale per migliaia di altri scrittori, artisti, gruppi musicali e via dicendo.

È possibile, anzi, necessario, immaginare altri tipi di licenza, così come altre forme in cui il lavoro creativo viene retribuito. Ma mi pare evidente che il copyright non sta lì a difendere la mia retribuzione, bensì il lucro dell’industria culturale.

Tutto questo salvo nel caso di alcuni ‘grandi’ artisti e scrittori, come i tre nomi citati, che percepiscono ingenti benefici dalla SGAE (la SIAE spagnola) dimenticandosi peraltro l’enorme pubblicità indiretta che gli arreca la diffusione delle loro opere su internet e limitandosi a partire dall’assunto che se la tua opera è stata scaricata gratuitamente mille volte, ne venderai mille copie in meno. Ma l’assunto è palesemente errato: molta gente scarica su internet cose che altrimenti non comprerebbe.

Come ha detto un anonimo e geniale cibernauta: “Se mi fossi fatto pagare 100 euro per ogni scopata, a quest’ora non sarei ricco: sarei vergine”.

Quattro cose che ho imparato assistendo alla cerimonia degli oXcars:

1) Che fine ha fatto Kim Dotcom? Io ero rimasto alla chiusura di Megaupload nel gennaio dell’anno scorso, e alla richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti. A quanto pare invece ero uno dei pochi a ignorare che mister Puntocom è pronto a tornare in pista, con la sua nuova creatura, Megabox (http://bit.ly/QKa7m3). Il perché di un personaggio così ambiguo alla cerimonia della cultura libera è presto spiegato: Megabox promette di rivoluzionare il mondo della musica, dichiarando guerra alle major. Il meccanismo di base è semplice, simile a quello di Spotify: musica online a disposizione dei cibernauti, che possono sottoscrivere un abbonamento oppure ascoltarla gratuitamente ma inframmezzata dalla pubblicità. Tutto perfettamente legale. Ma l’idea rivoluzionaria di Kim Dotcom, è di versare i diritti direttamente agli autori (90%, trattenendo il 10% per il sito) saltando la mediazione delle etichette. L’uscita del nuovo portale è prevista per il 19 gennaio. Gli avvocati di entrambe le parti stanno affilando le armi. Chi vincerà e chi sarà spazzato via?

2) Una delle prime forme di copyright è stata introdotta nel Cinquecento in Inghilterra dalla regina Maria I Tudor (conosciuta anche con il grazioso nickname di Maria la Sanguinaria). Prevedeva la concessione del diritto di stampa e distribuzione ad alcuni stampatori, in cambio ovviamente della possibilità di esercitare la censura da parte del governo. Insomma, il copyright nasce da subito non come strumento per difendere gli autori, ma per controllare e autorizzare la circolazione delle opinioni.

3) Il celebre discorso pronunciato da Martin Luther King il 28 agosto del 1963, dalla scalinata del Lincoln Memorial durante la marcia su Washington, meglio conosciuto come I have a dream, è stato registrato dagli eredi di King che ora ne detengono il copyright e godono dei diritti di riproduzione.

4) Crowdfunding: si è fatto il punto sulla nuova pratica sociale di ‘raccolta fondi’, resa possibile da internet, grazie alla quale sono stati finanziati moltissimi progetti attraverso piccole donazioni private. In Spagna, il 15M, ovvero il movimento degli indignados, ha lanciato una campagna per denunciare Rodrigo Rato – ex ministro dell’Economia del governo Aznar, e soprattutto ex presidente di Bankia, il gruppo bancario che ha trascinato verso il baratro costringendo il governo spagnolo a un salvataggio record di 23 miliardi di euro (mentre si smontava allegramente il sistema sociale tagliando sanità, pensioni, istruzione e varando leggi per il licenziamento facile). L’accusa è di truffa, appropriazione indebita, falsificazione di bilanci, amministrazione fraudolenta e violazione delle norme sulla concorrenza. Per poter presentare la denuncia all’Audiencia Nacional servivano 15.000 euro, da raccogliere entro e non oltre 40 giorni.

Volete sapere com’è andata? Il crowdfunding è stato chiuso nel tempo record di 6 giorni, ricevendo oltre 18.000 euro di donazioni. La querela è stata portata avanti. Rodrigo Rato è stato convocato in tribunale a dichiarare per il 20 dicembre. La gente non dimentica.

Luigi  Cojazzi

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