Di scorta agli operai afghani

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E’ il 19 luglio del 2010, qui ad Herat per me la giornata è iniziata con un altro “servizio prestato per la gente afghana”.

Col mezzo lasciatomi in dotazione, mi sono diretto verso l’uscita dell’aeroporto, che si trova nella parte sud della base.

Ci ho messo un quarto d’ora per arrivarci: il percorso piuttosto insidioso, fatto di buche e strettoie, impraticabile, faceva “sballottare” il pesante mezzo un po’ di qua e un po’ di là, lasciando dietro di me una grossa scia di polvere chiara.

In lontananza e aldilà della recinzione, tra le montagne, ho intravisto colonne di fumo nero.

“Un altro attacco?” – ho pensato dentro di me… – “Sicuramente un’esplosione o qualcosa di simile…chissà se ci arriveranno notizie!”

Non saprei dire che cosa potesse essere successo, intanto qui dentro, la situazione mi è sembrata piuttosto tranquilla e normale.

Le giornate in qualche modo stanno trascorrendo, anche se spesso sembra che il tempo si fermi, intorno sembra tutto uguale e spesso perdo persino la cognizione, spesso non ricordo se è lunedì, martedì…domenica, tutto è sempre uguale e lentamente la vita sembra scorrere…

Saranno state circa le otto, stamane, mentre mi accingevo a svolgere questo “servizio” e la mia testa era immersa in questo tipo di pensieri.

Arrivato davanti all’uscita, ho atteso qualche minuto nel mezzo fermo, finché da lontano un collega di servizio al “gabbiotto”, uscendo, mi ha fatto un cenno con la mano, quindi sono uscito dal mezzo e lungo la stradina ciottolosa che porta verso l’uscita, mi sono diretto verso di lui.

“Oggi ti è stata assegnata una squadra di sette local-workes” – Mi ha detto, dandomi con una mano un “biglietto” plastificato delle consegne mentre con l’altra teneva il fucile.

Ci ha raggiunto un uomo italiano in abiti civili di circa cinquant’anni: non portando alcuna uniforme, ho dedotto subito che non fosse un militare.

“Il signore quì è l’ingegnere responsabile dei lavori, lui sarà con te mentre sorveglierai gli operai”. Ancora il militare si spostava aldilà dell’uscita e ha accompagnato verso di me sei uomini afghani.

Avvicinandosi e rivolgendosi alle sei persone con un inglese sufficientemente comprensibile, ha detto loro che erano affidate a me durante il lavoro di oggi.

I sei mi hanno osservato incuriositi e li ho fatti salire sul veicolo, l’ingegnere italiano si è accomodato accanto a me e, salutando il collega, son partito con loro.

Ci siamo diretti verso il cantiere, il mio “referente” che conosceva la direzione, parlandomi, man mano mi indicava la strada.

L’uomo italiano si chiama Giorgio ed è per l’appunto, ingegnere per una grossa ditta di Livorno che si occupa di edilizia.

La ditta, mi ha spiegato, ha vinto una gara d’appalto per l’Amministrazione Difesa e le sono state assegnati dei lavori per infrastrutture da realizzare qui ad Herat per conto della NATO.

Mentre mi raccontava di ciò che fa, ho compiuto tutto il percorso necessario per raggiungere a poche centinaia di metri il cantiere.

Mentre parlava, dallo specchietto retrovisore osservavo i sei operai che con sguardi smarriti si guardavano intorno, qualcuno incrociando il mio sguardo dallo specchietto, mi ha accennato un sorriso quasi spontaneo.

“Spesso vado in centro ad Herat, per raccogliere gente da portare a lavorare qui, è una condizione che la “Difesa” ci ha imposto: fare lavorare per noi solo ed esclusivamente operai locali. La maggior parte di loro è gente che lavora anche bene, anche se in un modo molto diverso dal nostro. Per “consegnare” i nostri lavori alla vostra amministrazione, i tempi sono piuttosto brevi e ho bisogno di parecchia manodopera – ha aggiunto. Gli afghani stanno diventando degli ottimi operai nel campo dell’edilizia, è un paese che spera di crescere anche da questo punto di vista. Pian piano anche qui si modernizzeranno e ci sarà bisogno di costruire nuove case, nuovi palazzi per le città, ma dobbiamo iniziare dal basso, intanto facendoli lavorare anche qui dentro è un inizio, imparano in fretta e stiamo cercando di indirizzarli, anche insegnando ciò che noi sappiamo fare. Questo potrebbe essere un ottimo inizio per loro, se ognuno di noi nel suo piccolo, insegna loro ciò che sa fare, veramente questo Paese avrà buone possibilità per cambiare, anche se ci vorrà ancora del tempo.

Purtroppo i talebani hanno tolto tutto a questa gente, loro fino ad ora erano solo abituati a vivere nell’ignoranza assoluta e lavorando come bestie. E’ giusto che studino, come è giusto che imparino anche le tecniche di lavoro se qualcuno dovesse decidere di fare l’operaio, l’Afghanistan ha bisogno anche di loro.

E’ gente che ha un forte bisogno di lavorare per raggiungere i loro obiettivi, dietro queste persone ci sono storie di padri, di figli, di intere famiglie da sfamare…. La nostra azienda nel suo piccolo cerca anche di andare incontro a loro, paga queste persone con un salario di circa dieci euro al giorno, non è male se si pensa che la paga giornaliera media di un operaio qui, è di tre euro…”

Giorgio mi è sembrato una persona molto portata per quello che fa e nelle sue parole ho letto sfumature importanti che, pensandoci bene, non sono sbagliate per questa società.

Nel breve tratto di strada fatto insieme, avrà risposto a tre – quattro telefonate, arrabbiandosi con fornitori e con altri suoi sottoposti che controllavano probabilmente altri cantieri sparsi per Herat o per non so’ quale altra parte dell’Afghanistan.

Appena arrivati al cantiere, ha subito dato le sue direttive ad uno dei sei uomini, probabilmente il più esperto, che poi ha riportato agli altri cinque.

Gli operai, cambiati i propri indumenti e dopo aver indossato delle tute blu e dei caschetti gialli antinfortunistici, hanno iniziato immediatamente a dare delle forti picconate sulla terra arida e calda.

“Qui stiamo costruendo una nuova pista di atterraggio e decollo per aerei” – mi ha spiegato Giorgio. – “E’ un lavoro che spero non ci porterà via troppo tempo, la gente lavora, hanno i loro tempi, per carità!…Bisogna rispettare anche le loro abitudini, il pranzo e il loro modo di pranzare, il Ramadan, il periodo di digiuno durante il quale spesso non rendono quanto dovrebbero, mentre lavorano, le preghiere…Sono usi e costumi molto diversi dai nostri e dobbiamo andare incontro a tutto questo per avvicinarci a loro, adeguarci e rispettarli. Va bene i nostri affari, ma non dobbiamo dimenticare che siamo sempre nella loro terra….”. Giorgio è molto spedito nel parlare, non faccio domande, e mi racconta tutto senza che gli chieda nulla.

“…A fine giornata. dopo il lavoro, sono abituato a dargli sempre qualcosa, spesso mi chiedono il “rani” che è una bevanda a base di frutta, molto buona e parecchio in uso da queste parti. E’ quasi un premio che mi chiedono per impegnarsi meglio nel lavoro”.

Ho visto che in questo cantiere il lavoro richiede un grosso sforzo fisico,  è abbastanza faticoso, si lavora ininterrottamente sotto il sole, si lavora di “piccone”, si raccoglie la terra in eccesso in grossi secchi, dopo di che si scava e la terra è portata in una zona poco lontana dall’area dove lavorano, “creando” montagne di sabbia.

La terra, grazie all’aiuto di rastrelli, man mano viene spianata: la “preparano” per poi spargerci su grosse colate di cemento ricavato da una vecchia betoniera sempre in funzione.

E’ un grosso lavoro di squadra, un lavoro eseguito a catena…

Il fisico dei sei uomini è talmente lontano dalla “prestanza” lavorativa, che sembrano non reggere la fatica richiesta.

Nonostante la precarietà dei mezzi e il gran caldo, i sei operai mi son sembrati ben “preparati” a poter svolgere questa impegnativa mansione e a differenza degli altri conosciuti qualche giorno fa, mi sono sembrati poco propensi al dialogo con me o per il tipo di lavoro o per la presenza “fisica” dell’ingegnere che li imbarazza e quindi si sentono più “controllati”.

Giorgio ha continuato a rispondere ancora ad altre telefonate e mentre lo faceva, di tanto in tanto si allontanava: ogni volta a distanza lo vedevo gesticolare e dimenarsi quando le cose magari non andavano come lui avrebbe voluto…

Gli operai hanno continuato a lavorare ed intorno a loro un groviglio di polvere ha reso lo scenario piuttosto “surreale”…

Gianni Quattromini

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