Garibaldi, organetti e campi d’internamento: la storia dell’immigrazione italiana in Inghilterra

FacebookTwitterLinkedInWhatsAppEmail

L’italiano emigrante è un “common topic” degli ultimi duecento anni di storia europea. E non solo. Recentemente il Presidente degli USA Obama ha dichiarato che l’apporto della comunità italiana è stato fondamentale per lo sviluppo e la vita degli Stati Uniti.

D’altronde, sono parte della memoria storica gli enormi barconi che partivano dall’Italia e attraversavano l’Atlantico con italiani pieni di speranze, ma con pochi soldi in tasca. Li chiamavano “cafoni”. Lo cantava anche De Gregori nella sua “Titanic”.

Le destinazioni privilegiate dagli italiani (se si può ritenere l’emigrare un privilegio) erano le Americhe, Ellis Island per chi sceglieva di tentar fortuna tra gli “yenkees” e San Paolo per quelli che decidevano di andare a colonizzare e coltivare le sterminate terre del Sud. Molti, delusi dalla loro avventura, ritornavano in Italia completamente cambiati, riplasmati dalle terre d’oltre oceano. La fobia più ricorrente nella Chiesa era quella di assicurarsi che nelle colonie sperdute, i fedeli non dimenticassero i riti del buon cattolico. Ma spesso cosa accadeva? Non si sa per quale ragione, al suo ritorno, il “cafone” aveva perso la via del Signore per imboccare strani vicoli “selvaggi”. Forse quelli della foresta Amazzonica.

C’era poi chi, spaventato dal lungo viaggio guardava all’Europa del nord come direttrice per le proprie ambizioni. La Germania, il Belgio (e le sue miniere) e la Francia furono meta usuale per molti italiani. Qualcuno scelse l’Inghilterra. In realtà, sappiamo poco di quegli italiani che scelsero la “perfida Albione”. In quel periodo, Albione non era ancora perfida e l’uomo di Predappio non era ancora il Duce. Insomma, l’Inghilterra non faceva ancora paura. Parliamo dell’Ottocento, periodo nel quale gli italiani, con i loro pensatori politici e patrioti affascinava l’Europa. Sì, perché i tedeschi avevano Bismarck, ma noi potevamo vantare Mazzini, Garibaldi e Cattaneo.

Mazzini negli anni Trenta dell’Ottocento si rifugiò in Inghilterra, dove riportò in vita La Giovine Italia e continuò la sua propaganda per la nazione italiana.

Garibaldi vi fece visita (non era la prima volta) nell’aprile 1864. Le cronache dell’epoca descrivono folle di persone entusiaste che accorrevano a salutare il rivoluzionario italiano. Si dice che le donne inglesi fossero affascinate dalla virilità e dalla fierezza di Giuseppe Garibaldi. Il fascino dell’italiano deve essere stato lo stereotipo dell’epoca, visto che due tra i più famosi patrioti italiani, il garibaldino Alberto Mario e il mazziniano Aurelio Saffi, si congiunsero in matrimonio con due donne britanniche, Jessie White (Mario) e Giorgina Janet Craufurd (Saffi), figlia della nobile e ardente mazziniana, nonché femminista Sophia Churchill.

Ma cosa facevano gli italiani, quelli meno famosi, in Inghilterra  mentre i patrioti sognavano l’Italia unita?

Scappavano. Scappavano da Napoleone che aveva invaso l’Italia portando miseria e fame. Già a partire dagli anni Venti dell’Ottocento sono rintracciabili migrazioni stagionali di italiani verso l’Inghilterra. In quegli anni era comune trovarli sopra i loro baracconi mentre intrattenevano il pubblico inglese con spettacoli di strada.

Se qualcuno ha visto “Sweeney Todd” di Tim Burton, il “barbiere di strada”, l’italiano Adolfo Pirelli, probabilmente rende l’idea di quale fosse il tipo di attività intrapresa dagli italiani nelle strade di Londra. Intrattenitori? Truffatori? A volte facevano i mercanti. Si dice.

Negli anni Settanta dell’Ottocento, l’avvento della ferrovia portò in Inghilterra suonatori d’organetto da Parma e i famosissimi gelatai italiani, molti di loro napoletani. L’aumento della comunità italiana a Londra portò alla creazione di una “Little Italy” nei pressi del quartiere di Clerkenwell.

Nella seconda metà del Novecento, la comunità italiana in Inghilterra era divenuta ormai una realtà consolidata. Gli italiani sbarcarono a Birmingham e nei pressi di di Fazeley Street nella zona di Digbeth cominciò a svilupparsi la “Little Italy” di stampo “brummie”. Quella era una zona povera con abitazioni fatiscenti. La vita di questi “disgraziati” era precaria e molti di loro erano artisti di strada, suonatori di organetto, violinisti e suonatori d’arpa. Altri cominciarono a produrre dolci e prodotti di pasticceria. Gli italiani sono comunemente ricordati come venditori di strada, ma con il tempo si dedicarono al commercio, installandosi nel mercato cittadino, dedicandosi anche alla ristorazione.

Gli italiani a Birmingham vissero una vita sostanzialmente tranquilla fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il conflitto mondiale aprì contrasti con le autorità inglesi. Gli “italians” che si trovavano da meno di venti anni in terra britannica furono mandati in campi di internamento disseminati per il Regno Unito e catalogati come stranieri e nemici. Il regime di guerra e i danni provocati dai bombardamenti al distretto in cui erano soliti risiedere, contribuì alla repentina dispersione della “Italian community”.

Questo recente passato di italiani emigranti che sembrava ormai essersi esaurito dopo la Seconda Guerra Mondiale, si ripropone anche nella nostra vita quotidiana. Ogni giorno, probabilmente, da qualche parte in Italia, c’è qualcuno che fa la valigia e parte. Parte volando sopra le macerie di un’Europa che ha svenduto la propria identità al capitalismo. Quando penso a loro, gli italiani, il famoso popolo di emigranti, sorrido e mi compiaccio della loro capacità di rimanere se stessi. Come direbbe qualcuno, di portare il sole dove non c’era.

Mr. Obama, ha ragione Lei, cosa sarebbe il mondo senza gli italiani.

Marco Tiozzo Fasiolo

Ti potrebbe interessare