Guido Bianchini e il Veneto del progresso scorsoio

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Prologo dovuto (ahimè) ai tempi che viviamo. Se lo leggete in un futuro migliore potete omettere:

Il nostro mondo informativo ha, tra gli altri, un grosso problema cognitivo: accetta con grande difficoltà la complessità dell’esistenza, la sfaccettatura del reale, vive di macro-narrazioni successive. Ed è tremendamente conformista. È per questo che diventa quasi impensabile, dopo gli arresti a Parigi il 28 aprile scorso di “7  terroristi”, da Pietrostefani alla Petrella, poter parlare pubblicamente, o almeno sui giornali, del libro “Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo”. Guido, arrestato sempre in aprile, ma il 7, ed era il 1979, nella famosa operazione che portò in carcere Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo e tantissimi altri, riparò, dopo la seconda carcerazione preventiva, proprio in Francia. Lì rimase fino all’assoluzione, dopo quasi due anni di carcere ingiusto. Vorrai mica parlare quindi, pubblicamente, mentre il Paese si stringe plaudente attorno all’operazione che pone fine alla dottrina Mitterand, di uno di quella cricca lì? Vorrai mica poter alludere che non furono, solo, Anni di Piombo? Beh, sì, vorrei dire proprio questo. Ci provo. È – anche per me, che Guido ho avuto la fortuna di conoscerlo – un libro sorprendente. E viene da pensare a cosa sarebbe diventato questo Paese se certe energie fosse riuscito a inglobarle e canalizzarle invece che rinchiuderle buttando la chiave della storia.

La recensione vera

Viene da chiedersi quanto pensiero la sinistra veneta e italiana si sia persa per strada, negli ultimi sessant’anni a rileggere i saggi di Guido Bianchini. «Ritratto di un maestro dell’operaismo», è il sottotitolo della raccolta omonima curata da Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò uscita per DeriveApprodi.

Ripartire dal lavoro, dall’analisi del valore, per capire il Veneto di oggi. A più di vent’anni dalla sua scomparsa questo volume aiuta a ricostruire, con i pochi scritti lasciati da Guido, e le tante testimonianze di chi è cresciuto nel confronto oratorio con lui, le tracce di una sinistra operaista spazzata via dalla repressione della lotta armata. Una battaglia, dello Stato e del Pci, che travolse tutto e tutti, anche chi, come Bianchini, uscì illibato nella fedina penale dai processi e, tutto sommato, anche nello spirito. Ma non è questo – fortunatamente – il tema del libro. Sul processo 7 aprile, su quello che è stato ed ha significato nella storia italiana, è calata una coltre che è inutile tentare di diradare. Almeno per chi ha amore per il futuro, com’era Guido.

Ho letto il libro – cui ho contribuito con un piccolissimo ricordo personale assieme a firme ben più significative come quelle di Toni Negri, Adone Brandalise, Franco Bifo Berardi, Alisa Del Re – provando a declinare, nella mia testa di piccolo imprenditore e operaio intellettuale allo stesso tempo, alcune intuizioni di Bianchini in chiave moderna.  Questo articolo si concentra infatti più sulla parte originaria degli scritti di Bianchini che sulle testimonianze. Due gli ambiti di ragionamento che mi hanno più colpito: il primo riguarda la storia della sinistra italiana in relazione allo sviluppo economico; il secondo è il rapporto tra chi intraprende e chi, insieme a lui, produce plusvalore. Proverò a percorrere questi concetti attraverso il commento di brani che ho trovato particolarmente illuminanti.

Operaismo e progresso

Prima di tutto: cosa vuol dire essere operaisti? Lo spiega lo stesso Guido Bianchini in un’intervista rilasciata a Guido Massaro nel 1991. «Il mio operaismo continua ancora. Sono un non pentito, nel senso che ritengo ancora, che il punto di vista dei produttori di plusvalore debba essere prevalente sugli altri punti di vista». Assieme ad operaismo, altro termine chiave è progresso, che fu centrale anche nella nascita della testata Progresso Veneto. Progresso vs sviluppo: lo sviluppo è il progresso scorsoio di Zanzotto che inghiotte il Veneto e il territorio. «Gli uomini hanno lottato, studiato, costruito, esplorato, imposto ciò che a essi sembrava progresso – scrive Bianchini nel saggio Progresso o Sviluppo? – E hanno non intenzionalmente prodotto quelle che invece ha preso il nome di sviluppo. La convinzione che bastasse incrementare il Pil per aumentare il benessere ha finito con il determinare uno sviluppo distruttivo e beota».

Tra socialismo e libertà

«Certi mondi non sanno morire compostamente: sanno solo crollare. L’Ancien régime e lo zarismo hanno avuto bisogno del boia per finire. Così è stato anche per il regime sovietico: un Ancien régime, appunto, dalle scomposte convulsioni». Inizia così, con tutto il disprezzo per i cosiddetti regimi comunisti dell’Est Europa, il saggio Socialisme ou Barbarie, riprendendo il nome della corrente marxista libertaria fondata da Cornelius Castoriadis. Ricordo ancora: avevo 18 anni quando Guido mi parlò di Castoriadis, delle similitudini tra Capitalismo e Comunismo Sovietico (due modelli che hanno come dogma l’aumento della produzione) e della possibilità di coniugare marxismo e libertà. «In questo secolo il socialismo è stato il reinventore, in termini moderni, della solidarietà, è stato il portatore di un anelito morale per costruire una società meno ingiusta socialmente, il costruttore di uomini liberi di soddisfare almeno i bisogni primari. In questo senso è stato tra gli artefici delle moderne democrazie, che ormai, tutte, hanno in sé quel tanto di socialismo che le lotte delle grandi masse sono riuscite a imporre loro […] E sia ricordato ancora una volta: ciò che è successo all’Est non ha nulla a che vedere con il comunismo. Esso non è stato mai all’ordine del giorno, né lì né altrove».

Il Veneto e la sinistra

Che spazio prende questa visione nativamente eretica nel Veneto che passa dalla povertà agricola alla terziarizzazione delle Partite Iva? Tornando all’intervista di apertura ci sono importati sprazzi di visione sui rapporti tra i partiti e la società degli anni Cinquanta e Sessanta. «I democristiani avevano organizzato intorno al loro potere, basato sul credito, migliaia di piccole imprese, legandole con vincoli di sangue alla fonte politica dei finanziamenti. Insomma i salariati sembravano stare tutti o quasi con il Pci, il lavoro autonomo con il Pci […]. Il cosiddetto miracolo economico era fondato sul basso costo del credito e sui bassi salari. Ed esso era avvenuto con il consenso implicito della sinistra: non si sarebbe potuto dare basso costo della manodopera senza il suo beneplacito e quello del sindacato». La vita di Guido è tutta interna a quella del movimento operaio, in gran parte nel Partito Socialista, poi nel Psiup prima di approdare a Potere Operaio e uscirne, dopo il convegno di Rosolina, senza patria, dubbioso come era sul movimentismo dell’Autonomia Operaia. Una vita sempre all’esterno del Pci e alla sua politica.  «La cooperazione l’hanno inventata i riformisti, eppure negli anni Cinquanta era praticamente in mano al Partito Comunista. In pratica i comunisti avevano saputo amministrare molto bene quel loro essere minoranza assai attiva e avevano finito con il fare un autentico colpo di Stato all’interno della distribuzione delle forze di sinistra». Il punto principale di scontro con il Pci era di visione sulla strategia e sulla lettura sulla società. Il marxismo agognato da Guido era un marxismo «depurato dall’ideologia del sottosviluppo». Il ritardo culturale del Pci e della sinistra (come non rileggerlo anche successivamente) è dovuto al fatto di essere «partiti della crisi, del sottosviluppo, raccoglievano spesso intorno a sé gli strati meno avanzati di operai e proletari». «Quella sinistra che subiva il fascino stalinista della parola d’ordine “raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia” era stata sopravanzata dai fatti, incapace di seguire gli avvenimenti che avevano condotto il paese a darsi strutture industriali moderne e funzionanti. Bisogna ricordare, per inciso, che in Italia gli ideologi del terzinternazionalismo erano quasi tutti meridionali». Come non pensare immediatamente al crescente abisso, in Veneto, tra i ceti produttivi e la sinistra. «Non si capiva infatti quale crisi esso potesse gestire in una situazione di occupazione crescente». La conflittualità e la crescita come elementi correlati, dell’innovazione. «Una spinta allo sviluppo c’è quando l’imprenditore ha bisogno di sterilizzare la conflittualità. I salti tecnologici sono, a ben vedere, delle uscite laterali di sicurezza per l’impresa rispetto alla conflittualità». Una drammatica incompatibilità, quasi antropologica, dovuta a una diversa visione del mondo: un mondo in crescita in cui provare a orientarla, o un mondo in contrazione dove giocare sulla difensiva svendendo ambiente e innovazione sull’altare dell’occupazione? In questo abbaglio, probabilmente, c’è parte del divorzio tra Veneto e sinistra.

Photo by Pat Whelen on Unsplash

Il Pci emiliano

Guido visse una buona parte della sua vita a Ferrara dove Licia De Marco, sua moglie, compagna e attivista, insegnava Fisica all’Università. Questa esperienza a cavallo tra i due mondi lo portò a studiare a fondo le differenze con il modello emiliano. Anche qui, a rischio di banalizzare una spiegazione molto articolata, vorrei sottolineare alcuni passaggi per me illuminanti tratti dal saggio La classe operaia emiliana di fronte al problema dell’organizzazione. «Il progetto di sviluppo elaborato dal Pci è fondato sulla formazione di una borghesia rossa alla quale va garantito in un modo o nell’altro un clima favorevole […] in Emilia i padroni sono nel Pci». La bassa conflittualità operaia è, secondo Bianchini, parte di un disegno preciso. «Una tale proliferazione di piccole imprese reca un duplice vantaggio politico: la decomposizione delle concentrazioni operaie consente di controllare le lotte e di gestire in fondo la passività operaia; le dimensioni minimali delle imprese ne fanno un insieme subordinato alle scelte e alle decisioni del capitale sociale. Questo insieme sociologico è controllato in modo determinante dal Pci». Per Bianchini l’Emilia rossa si propone come «modello di gestione sociale dello sviluppo capitalistico a livello nazionale».

Al lavoro

Un ultimo saggio – Tecnologia e organizzazione di classe, pubblicato nel 1974 su Quaderni del Progresso – chiude la raccolta dei pochi scritti lasciati da Guido Bianchini. Più difficile digerirlo e aggiornarlo a un contesto lanciato nella corsa verso l’automazione. Rimane, per me piccolo imprenditore nella produzione dei contenuti, un appunto mentale: la valorizzazione della professionalità del lavoro, il rifiuto delle «mansioni», la tutela del capitale psichico di ciascuno di noi, il rimanere ancorato alla maggior innovazione possibile per avere il privilegio di pormi prima davanti alle scelte che il futuro ci obbligherà a compiere. E, di fondo, il dubbio che la dimensione imprenditoriale attuale sia piuttosto quella di un operaio intellettuale avanzato e auto-organizzato in un sistema ben più complesso. Rimango alla ricerca di una dimensione e di una lettura. Credo che rimarrò così a lungo. In un mondo in cui l’economia dei «creators» rischia di disarticolare in modo definitivo il lavoro intellettuale di gruppo; in cui il capitalismo punta sulla piena automazione mi manca una mappa. E mi piacerebbe aggiornarla con quanto letto anche in questo libro. E’ un doppio salto mortale carpiato che evito portando avanti una ricerca imprenditoriale personale e qualche impegno morale.

La lezione di Guido

Cosa rimane quindi? Ci sono un piano personale e uno prettamente economico-politico. Sul piano personale Guido è per me la quintessenza della libertà: la libertà di essere sé stessi pagando sulla propria pelle il prezzo delle sue idee; la libertà di essere sempre scomodo e controcorrente; la libertà intellettuale di tenere uniti registri differenti per mettere in luce la vera essenza delle cose. E’ una lezione che ho appreso a 18 anni e che porto dentro custodita gelosamente. Emerge da tutte le testimonianze raccolte nel libro. C’è poi la lezione economico-politica che mi è ora più chiara potendo riprendere in mano gli scritti di Guido Bianchini. Nella sua dimensione storica, nel conflitto interno alla sinistra italiana (cosa ha significato per il poco progresso di questo Paese una sinistra a trazione Pci, piuttosto che socialista) e nella possibilità di conciliare socialismo e libertà, ponendosi però dalla parte di chi il valore lo produce. Il lavoro è, ancora, un campo di studio.

Luca Barbieri

 

Foto di copertina: Photo by Nana Smirnova on Unsplash  

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