Il decollo e l’arrivederci all’Italia e al figlio: si parte per l’Afghanistan (seconda puntata)

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Continua la pubblicazione di alcuni estratti della tesi di Giovanni Quattromini, militare e neolaureato in Scienze della Comunicazione, con una tesi che racconta la sua esperienza in Afghanistan.
Negli istanti successivi e dopo averlo abbracciato e baciato, ho pensato ai suoi occhi, al suo sguardo e tutto mi è rimasto impresso. Mi guardava e osservava come fa di solito, inconsapevole che da lì, fino ai prossimi quattro mesi circa, non ci saremmo rivisti…Ogni volta che osservo mio figlio, nei momenti successivi non rimuovo per tanto tempo più la sua ultima immagine che mi resta di lui. Il pensiero un po’ mi angoscia, ma cerco di non pensarci tanto e di “fissare” le mie attenzioni su quello che mi darà questo mio viaggio, su chi incontrerò, su cosa vedrò…Siamo appena arrivati a Torino, è appena l’alba, saranno le cinque, dopo aver preso i bagagli e salutato l’autista, mi trovo nella grande sala di attesa dell’aeroporto dove c’è un grosso via-vai di gente: la maggior parte sono  militari.
In una confusione quasi surreale decido di “isolarmi” e mi accomodo su di una poltrona per attendere che qualcuno annunci il mio volo: ho voglia in questo momento di starmene ancora un po’ solo, di continuare ad “immergermi” ancora nei miei pensieri, pensare alla mia famiglia, alla mia vita, cercare di capire se è giusto o no che parta, pensare all’Afghanistan e prenderla questa, come un’occasione magari irripetibile, andare a conoscere una nuova realtà e scoprire “chi” andrò a trovare, se quello che dicono i media sia vero e vorrei approfondire le poche conoscenze che già ho su di questo Paese.
L’attesa si prolungherà ancora, intanto è mattino, attendo la stessa voce che annunci il mio volo, sono sempre stanco ma non dormo, magari mi addormenterò una volta salito sull’aereo. Penso, rifletto e provo ad immaginare sempre ed insistentemente la situazione che troverò quando arriverò a destinazione e allo stesso tempo mi guardo intorno. Siamo circa una trentina del mio gruppo, tutti apparteniamo allo stesso ente, abbiamo incontrato qui altri che insieme a noi affronteranno lo stesso viaggio ed insieme a noi dovranno raggiungere la stessa destinazione: con noi anche qualche giornalista (“gli inviati di guerra”). Dopo brioche e cappuccino al bar, dopo aver scambiato qualche battuta con un collega, una voce ai diffusori, quella voce, annuncia il mio volo: dobbiamo avvicinarci al gate.
In fila indiana, bagagli in mano, mostriamo la nostra carta d’imbarco a chi ci controlla, in un’ora sono nel mio aereo e pronto per decollare. Mi guardo e oltre a chi già era partito con me in pullman , riconosco tante facce di chi con noi in sala d’attesa qualche momento prima attendeva lo stesso volo, trascorreremo quasi quarantotto ore insieme prima di arrivare a destinazione.  Accanto a me c’è Stefano, sarà il mio primo “compagno di viaggio”, un uomo di circa cinquant’anni, militare, non ricordo di averlo visto prima dell’imbarco: ci siamo presentati avremo qualche ora davanti a noi per approfondire la conoscenza, almeno fino al primo scalo.

Giovanni Quattromini (QuattroGi)

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