Il Sud Sudan e quella luna
C’è una domanda che mi porto dentro: esistono latitudini in cui la luna sorge e tramonta nello stesso punto? Un luogo in cui la sua traiettoria in cielo è uguale ogni giorno ed ogni notte? E se non esiste… perché ogni volta che arrivo a Lui, la luna sorge dietro la stessa collina, nell’ora esatta in cui il cielo si fa scuro e le sagome delle palme iniziano a confondersi?
Lui è un villaggio del Sud Sudan, un villaggio qualsiasi, lungo una strada sterrata, ad un certo punto tra la capitale Juba e qualcos’altro. Definire esattamente questo “altro” non è semplice. Superato Lui, a mezz’ora di strada c’è una curva a gomito, la carcassa di un camion rovesciato e poi Mundri, che è sempre un villaggio, un po’ più grande. Dopo un’altra ora un incrocio, verso nord e più avanti un secondo incrocio, a sinistra, indica l’Uganda, laggiù da qualche parte. La macchina sobbalza tra le buche, ti dicono che in fondo alla strada c’è Jambio, poi il Congo. Ma passano le ore ed è sempre più difficile crederci, la meta smette di esistere.
A suo modo Lui è bellissimo, lontano, lunare, unico. Sorge in un luogo dove, inspiegabilmente, dalla boscaglia senza orizzonte si sollevano delle colline di roccia liscia e scura. Alcuni alberi hanno radici abbastanza forti da spaccare la roccia ed abbracciarla rimanendo aggrappati per secoli.
Quasi cento anni fa è arrivato qui un medico scozzese. Probabilmente all’epoca il villaggio non esisteva, mancavano la strada, la gigantesca antenna del telefono, le bancarelle degli eritrei che vendono farina e riso, l’assembramento dei moto-taxi e il posto di blocco con i militari impolverati e armati di kalashnikov. Non esisteva niente. Lo scozzese deve averlo fatto per le colline. Aveva viaggiato dalla Scozia al Sud Sudan, ha visto queste colline e si è fermato. Qui ha fatto quello che sapeva fare, ha costruito un ospedale. Ha spedito tutti i materiali in grandi casse di legno che hanno attraversato il Mediterraneo e risalito la corrente del Nilo fino a qualche porto fluviale, le ha scaricate e chissà come è riuscito a farle arrivare fin qui, via terra.
Noi eravamo a Lui per visitare quell’ospedale, parlare con il personale, valutare i progressi del progetto, i problemi e le sfide ancora da affrontare. Quando non sei medico e visiti un ospedale africano ti aspetti sempre il peggio. A volte arriva, un inferno silenzioso, dove non si alza nessun lamento, nessun gesto scomposto. Nella penombra si attende, si medica, si veglia. Finito il giro sei stupito di non aver avuto paura di guardare e di sentire. O comunque sei in piedi, e tanto basta.
Tornati a casa c’è una certa normalità, chi si attiva per la cena, apparecchia, scrive appunti e chi pensa a come celebrare la messa. È il venerdì santo, prima di Pasqua, Dante porta un tavolino nello spiazzo davanti casa, qualcuno trova una tovaglia bianca e raccoglie un rametto di bouganville da sistemare in un bicchiere. Non c’è una croce, così si legano insieme dei rametti secchi con il fil di ferro. C’è un certo silenzio rilassato, le auto sono parcheggiate poco più in là. Portiamo qualche sedia di plastica, uno sgabello, o ci sediamo sui gradini di casa ad ascoltare ed osservare i gesti del rito, con il pensiero che forse in quel contesto stiano acquistando significato. Poco più in là i rumori della sera, la strada principale quasi deserta, qualche fuoco che si accende nel villaggio. La vallata finisce in ombra mentre le cime delle palme raccolgono gli ultimi raggi di sole. Sullo sfondo, in tutto il loro splendore, le colline di pietra liscia, come a mostrarci la vera ragione che ci ha portati fin lì.
È a questo punto che, come ogni sera, una immensa luna piena compare da dietro le colline. Sempre nello stesso punto, ci giurerei.
Giulia Comirato