Insegnare in Camerun pensando all'Italia

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Mi trovo ancora a Yaoundé, Camerun, per una nuova avventura didattica. Le prime due volte sono venuto qui di fatto senza soluzione di continuità. Quando sono tornato dopo poche settimane in Italia, era come se non fossi mai partito, e dunque non ho avuto modo di sedimentare tutto quello che questa esperienza mi ha dato. Ora è passato più di un anno dall’ultima volta che sono stato qui. Tutto quello che prima era nuovo, le mille sollecitazioni dell’Africa, della città, dell’ambiente, dei profumi e degli odori, nonché l’insegnamento, tutto si è un po’ decantato ed ora che sono qui di nuovo molte cose le ho ritrovate subito e sono un po’ come una scarpa comoda, tipo i mocassini, che d’inverno e non li metti più, ma quando arriva un po’ di tempo mite il piede (e tu) torni ad apprezzare quel senso di comodità e libertà che rende piacevole camminare. E allora posso sentire meglio e più nitidamente, invece, quella che è la normalità per chi vive qui. E per gli studenti che frequentano la scuola, e in particolare al loro modo di vivere ed affrontare lo studio.

Oggi li guardavo, nella pausa, dopo 4 ore di mattina (intervallate da due break di 10 minuti) di analisi ed in attesa della sessione pomeridiana, con altre 2 ore. Pensavo. Tutto quello che succede ora in Italia è impensabile. Studenti che sono a scuola prestissimo. Ma questo forse dipende dal Sole che sorge invariabilmente ogni giorno intorno alle 6 e tramonta intorno alle 18. Siamo vicinissimi all’equatore del resto. Ma che stanno lì, in un aula che decisamente non ricorda un’aula full optional (anche se certe aule del Paolotti sono in competizione con questo anfiteatro…), ore magari si fanno 120 minuti di fila senza interruzione. Penso ai ragazzi in Italia. Poche settimane fa  ho finito il corso analogo per loro. Allo scoccare del 45mo minuto comincia la fibrillazione. Non parliamo quando è venerdì, ed io avevo anche l’ultima ora della giornata. La gente cominciava ad andarsene non alle 17, ma alle 12. Hanno il treno. Sarà che qui non c’è il treno per cui non c’è niente da prendere, ma oggi quasi alle 17 eravamo ancora lì. Poi vedo la loro pausa. Hanno finito il massacro del mattino e, dico: saranno stanchi? Una parte prende e va a giocare una partita di calcio in un posto che chiamano “stadio”. Un campo di polvere per capirci. Un’altra parte va a fare lo “sport”. Ragazzi e ragazze. Si cambiano, abiti sportivi, e via a correre. Su per la collina. Li guardo, fumando una sigaretta. Mi dicono che si stanno riscaldando. Per cosa? Poi scendono verso valle, all’entrata della Scuola, dove c’è un prato. I ragazzi si allenano in esercizi atletici da squadra di calcio di quelle serie. Le ragazze invece palleggiano a calcio. Poco sopra c’è un campo da volley. Due squadre (miste) si stanno riscaldando. Vado a vedere. Quando inizia la partita c’è una partecipazione da finale del campionato del mondo. Sono belli/e, caldi/e, sudati/e. Il sole picchia, ma loro si allenano. Altri guardano.

 

Gli studenti, alla fine della quadri-lezione del mattino, mi hanno chiesto se posso iniziare alle 15 e non alle 14,30 la lezione pomeridiana perché appunto una parte di loro va a giocare la partita di calcio. Quando sono in aula non sono ancora tornati. Inizio lo stesso la lezione con quelli che ci sono. E’ solo un’esercitazione, esercizi su loro proposta. Poi arrivano. Ragazzi e ragazze ancora con addosso scarpe coi tacchetti e magliette impolverate. Con uno, che arriva per ultimo, gli altri si divertono con uno sfottò: non lo vogliono seduto a fianco per non imbrattarsi di polvere. Per solidarietà chiedo di offrire un posto a Eto’o fils, l’idolo del football locale.
Alla fine sono stanchi, com’è giusto che sia, e forse un po’ ne hanno le palle (non quelle da football) piene, per oggi. Uscendo dalla scuola ne incrocio qualcuno sul marciapiede che aspetta il mezzo pubblico locale (il taxi, dico un’altra volta). Mi sorride, come fanno sempre. Come mi hanno accolto quelli che ho già conosciuto, che ora sono al secondo o al terzo anno. Fantastico.

Penso a quanto non abbiamo di tutto questo e di quanto loro non hanno. Penso a quanto talvolta riduciamo le questioni a cose inessenziali. Prima di partire da Padova avevo notato, sul Piovego, un volantino di un sindacato studentesco. Non lo ricordo esattamente, ma il messaggio era: vogliamo 5 appelli. Adesso mediamente ce ne sono 4. Mi chiedevo, guardando il volantino, se fosse una questione così rilevante. Penso ai miei allievi africani, hanno solo un appello e un recupero, non possono rifiutare il voto, né possono ritirarsi dagli esami. Non possono migliorare il voto se hanno preso un voto basso, e vanno avanti solo sulla base della media alta degli esami. Non voglio banalizzare. Ma forse penso che dietro a quei sorrisi e quella voglia in un mare di difficoltà che a volte sono oggettive (per noi europei) e soggettive (per loro), ci sia spesso una capacità di andare oltre, all’essenza. Loro vogliono imparare qualcosa, hanno le stesse preoccupazioni di tutti: troverò un lavoro (e qui, qui in Africa la questione è decisamente più drammatica di come ce la possiamo porre in Italia)? il titolo che avrò potrà permettermi, se ne avrò le capacità (non possibilità, nb) di studiare all’estero? magari in Italia?

Non so rispondere a queste domande. Penso che l’unica cosa che posso fare è offrire loro il meglio che posso con i mezzi che ho. Spero che a loro serva qualcosa e che lo trovino formativo.

Paolo Guiotto

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