Mae Salong, i rifugiati del triangolo d’oro

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Avevamo lasciato gli Akha dopo averli conosciuti come la tribù più povera del Laos, rifugiati nelle alte montagne, collegati al resto del mondo da impervie stradine che in pochi percorrono per vendere a valle qualche roditore cacciato in mezzo ai boschi. Li abbiamo ritrovati ancora in montagna, ma in Tailandia, a ridosso delle valli del Doi Mae Salong, una regione di confine diventata crocevia per molti rifugiati con storie e tradizioni differenti. Anche qui gli Akha indossano fieramente i loro costumi tradizionali nella vita quotidiana e le monete d’argento di epoca francese con le quali le donne adornano i copricapo risplendono più forte al sole che batte sui mille metri d’altezza. Ma il gradino sociale che occupano pare molto differente da quello dei loro cugini nel Laos. Qui gli Akha continuano a vivere nei loro villaggi, ma si spostano agilmente in motorino o in fuoristrada; costruiscono molte delle case in legno e paglia, ma c’è chi ha addirittura aperto una guesthouse per la gioia dei turisti a Mae Salong (il villaggio centrale della zona, omonimo della montagna); costruiscono statue in legno dagli attributi esagerati per scacciare gli spiriti maligni, ma sono abituati a relazionarsi con le altre etnie, cinesi e “farang” compresi.

Ogni mattina, tante donne indossano una camicia blu sulle loro variopinte vesti e si uniscono alle contadine degli altri villaggi per lavorare nelle piantagioni, ma non è più l’oppio a portare guadagni macchiati di eroina, bensì grandi distese curvilinee di profumato the. Con tanto di sponsorizzazione reale e con grandi affari per i proprietari, molti dei quali cinesi. Non parliamo questa volta dello spettro che si aggira per l’Asia, l’onnipresente gigante cinese che ingrassa a un ritmo forsennato anno dopo anno e compra terre, inonda valli, devia fiumi, smonta foreste, costruisce autostrade e megaindustrie per dissetare la sua popolazione (non diversamente da quanto hanno fatto l’Europa prima e gli Stati Uniti poi, oggi scandalizzati dalla mancanza di morale delle opere del colosso asiatico). I cinesi in questione sono gli eredi del Kuomintang, eroi della resistenza anticomunista ai tempi di Mao nello Yunnan, colleghi di coloro che fondarono l’attuale Taiwan. Ricacciati più volte dalle truppe rosse, si rifugiarono qui in montagna sperando un giorno di riorganizzarsi e tornare nella madrepatria. Dato che ogni tentativo fallì, la Thailandia decise di tollerare la loro presenza purchè si adoperassero militarmente nella soppressione della rivolta comunista che montava anche da queste parti e i combattivi cinesi non si tirarono indietro. Oggi i loro eredi hanno attività più prolifiche e pacifiche, ma un museo ricorda i caduti, il cinese risuona nelle strade del paese e una moschea canta la gloria di Allah sui tetti orientali incurvati all’insù ai quattro angoli, proprio come in Yunnan.

A bordo di uno scooter, le lunghe curve in salita a marcia bassa lasciano immaginare come queste valli abbiano costituito un conveniente isolamento per molti popoli senza una patria. Decidiamo di spingerci 20 Km più a nord, a pochi passi dalla Birmania, per cercare le tracce del temuto e riverito comandante della più gloriosa di queste genti, gli Shan venuti dal Myanmar. La storia degli Shan è antichissima: prima dell’espandersi dell’impero birmano ci fu un’epoca in cui il loro regno occupava anche parte della Thailandia. Furono poi inghiottiti dall’evolversi degli imperi, dal colonialismo e poi dalla definizione degli Stati-nazione, ma il loro desiderio di indipendenza non si è mai placato. Così negli anni ottanta il comandante Khun Sa si erse a ruolo di liberatore finanziando la sua armata privata con il più lucrativo business possibile al tempo: la coltivazione di oppio da rivendere per produrre eroina. In realtà il personaggio fu a dir poco ambiguo, dato che le sue origini erano cinesi, la sua educazione militare era legata al Kuomintang e gli inizi della carriera lo videro al servizio del governo birmano. Difficile dire oggi con quanta ammirazione egli venga ricordato nel villaggio in cui aveva stabilito il suo quartier generale. Il museo a lui dedicato si limita a una modesta statua equestre e ad alcune cartine abbozzate dei regni Shan del passato e di quello che sarebbe dovuto essere lo Stato attuale.


Nelle tre cadenti stanze ci sono anche sbiadite foto d’epoca coloniale, una paurosa immagine di Khun Sa che benedice un gruppo di bambini soldato e un’altra in cui saluta un’Akha che pianta l’oppio. Considerando che per trovare il museo abbiamo dovuto chiedere numerose volte informazioni e che tutto è chiuso a chiave, in possesso dell’addetta alle pulizie che vive in una stamberga di fronte, non ci sembra che i rifugiati di oggi rimpiangano l’epoca del terrore. I loro problemi sono sicuramente più legati al loro status di rifugiati e alla persecuzione della dittatura birmana. A giudicare dal numero di offerte alla foto della principessa, ci è sembrato che la riconoscenza della gente comune vada verso chi porta progetti concreti e pacifici più che a chi imbraccia un fucile e li rende famosi come il popolo dei “tagliatori di teste”.

Maria Elena Ribezzo e Marcello Passaro

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