Le sirene di Rio de Janeiro, un affresco carioca

Un corridoio che sembra non finire mai, blocchi di granito sotto i piedi e finestroni di plastica marron. Silenzio. Un altro corridoio, un po’ più ampio del precedente e in fondo la lunga coda per il controllo passaporti. Ma prima di tutto, sulla destra, una specie di installazione che ha tutta l’aria di essere lì quasi per caso, come se fosse stata dimenticata: nastri sottili di plastica colorata, (tipo i cotillon del martedì grasso) scendono dal soffitto e arrivano a terra. Qualcuno si è staccato da poco, altri sono stati calpestati da tempo. In basso una scritta impolverata: Bem-vindo ao Brasil.

Rio de Janeiro in grigioverde

La nostra manciata di giorni a Rio de Janeiro inizia da un’alba livida, grigioverde più che verdeoro, con una temperatura smorta e un tasso di umidità tipicamente tropicale. Nemmeno il tempo di capire e ci ritroviamo scaraventati dentro un taxi dopo una contrattazione lampo fatta con una decina di ore insonni alle spalle. E così, subito inghiottiti dall’abbraccio prepotente del traffico, iniziamo giocoforza a parlare con Luís. Pochissima voglia e moltissimo sonno. Per fortuna ci tiene più a raccontare di sé e della sua città che a sapere di noi, dell’Europa, dell’Italia e di Venezia. Ex magazziniere della Varig, la compagnia aerea brasiliana nata nel 1927 e morta nel 2006, una volta licenziato, con i soldi della liquidazione si è comprato un’auto nuova e ha deciso di scommettere sul business dei taxi. Forse per non tagliare del tutto il cordone ombelicale, da ormai dieci anni fa sempre e solo quella tratta: Galeão-cidade, aeroporto-città.

«Conosci Roberto Carlos?»

Il cielo è biancastro, i palazzi sono beige ma i suoi racconti hanno tutti i colori della gioia di vivere e di fare quel mestiere. Che all’epoca del fallimento della compagnia se l’era vista brutta ma che poi, alla fine, ce l’aveva fatta. A tirare su i figli lo stesso, a comprarsi un piccolo appartamento, a pagare le tasse e tutto il resto.
Un fiume pacioso di macchine ferme, un torrente di scooter che rombano e soprattutto, dentro la macchina nera che sa di fumo, patatine fritte, polvere e profumatore alla menta, il fiume delle parole. Ricamate assieme dalla cantilena che non sentivamo da tempo, fatte di termini rubati dalla strada e incollate a quella gestualità ampia che gli fa staccare le mani dal volante e indicare a ritmo serrato questo e quel punto del vetro unto dell’auto. Ha portato un sacco di gente sul suo taxi, Luís, e ne va fiero. Gente comune e meno comune. Conosci Roberto Carlos? Ci dice di colpo. Eccome no, gli rispondiamo con orgoglio da esterofili accaniti. Bene, la vedi quella villona laggiù? Tutta roba sua, abita lì con la sua famiglia allargata. Quando deve partire mi chiama, ripete guardando davanti a sé il traffico e gustandosi le parole.

Luís c’è

E io ci sono, sempre: Luís c’è. Come quella volta che l’agenzia con cui collaboro mi chiamò, confida con un po’ di suspence, e mi disse di andare a Leblon per un servizio importante. Un cliente ha fretta, perde l’aereo sennò. Arrivo all’indirizzo e chi vedo? Chico Buarque de Hollanda con la sua nuova fidanzata. Sì, proprio lui. Camicia a righe, i soliti occhi, un trolley e una fretta del diavolo. Come lo vuole il tragitto, com emoção o sem emoção, gli ho chiesto per rompere il ghiaccio. Solo un cenno della mano, e via. Cidade-Galeão in poco più di venti minuti: un record. Ride di gusto. Sono diventati amici, da quella volta, dice. Cioè quando deve andare all’aeroporto lo chiama. Come faremo anche noi, quando lasceremo Rio. Prezzo più basso, assicura, non c’è la percentuale dell’agenzia. E mi raccomando, niente Uber, ci ripete. È gente improvvisata che non conosce la città, tanti rischi. Troppi per qualche Real di meno.

L’arte modernista di Diógenes

Rio de Janeiro è così, i carioca sono così: chiacchieroni, amici all’istante, qualche volta furbi per campare, calmi e frenetici allo stesso tempo, allegri e malinconici, orgogliosissimi della città meravigliosa in cui vivono placidamente o sopravvivono tra mille ostacoli. Prima di partire i consigli erano sempre gli stessi. Vai a Rio? Due, tre giorni sono più che sufficienti. Forse anche sì. Il punto è che spesso finisci per innamorarti della sua pancia, del suo sangue e quelle briciole di giornate non ti bastano mai. Il Cristo, le spiagge, il Pão de Açúcar sono solo delle birre gelate che bevi volentieri ma che poi senti di dover accompagnare a qualcosa di più sostanzioso, magari seduto ai tavolini del Cervantes, un locale dietro Copacabana immobile almeno dalla fine degli anni Settanta. In cui mangi soprattutto panini con filetto di manzo, formaggio dozzinale e ananas. O al Bar do Mineiro su su a Santa Teresa, il quartiere bohémien (Parigi perdonaci) che conserva l’anima verace della città.

Luoghi in cui puoi incontrare i figli di Rio de Janeiro, come Diógenes Paixão, vecchio titolare del locale arrivato molti anni fa dallo stato di Minas Gerais, appassionato d’arte e tra i più grandi collezionisti del pittore modernista italo-brasiliano Alfredo Volpi. Italia, Venezia, il mio amore è il Lido, ci confida sedendosi al tavolo in compagnia di pasteís de bacalhau, e di un piccolo bicchiere di cerveja limpida come i suoi i ricordi veneziani. Adoro la Biennale d’Arte, ci sono stato un paio di volte, molti anni fa, c’era pure Yoko Ono, quella che distrusse i Beatles, grande artista. Gli chiediamo chi sia quel signore grande e grosso con cui alcuni impiegati in pausa pranzo si scattano dei selfie. Un politico di qui, un consigliere dello Stato di Rio, uno che viene da Santa Teresa, abitava qualche via più in là, e che si è fatto da solo. Alla gente piace.

 

Storie spezzate e vecchi sogni

Storie di persone e di sogni, a volte realizzati a volte barbaramente spezzati. Come quello di Marielle Franco il cui volto vive ancora su molti manifesti incollati ai muri del quartiere: «Marielle, Presente!». Lottava per i diritti delle donne e dei giovani neri emarginati. È stata assassinata in un agguato la sera del 14 marzo 2018. C’è chi dice da bande criminali, c’è chi dice dalle forze dell’ordine (i proiettili calibro 9 usati dagli assassini provenivano da una partita destinata alla polizia brasiliana). Una figura mitica, la sua, che ne richiama un’altra altrettanto presente sulle pareti sbrecciate di Lapa, di Mangueira e perfino sulle costruzioni di sabbia di Copacabana, decisamente più popolare della chic Ipanema. Un nome che è diventato slogan: «Lula Livre!».

Maracanã, il tempio

Ma oltre alle leggende politiche e a quelle musicali, il popolo carioca fonda la propria unità su un altro pilastro che da sempre lo caratterizza: il calcio. Impossibile quindi non visitare il tempio pagano dedicato a Mário Filho, maestro del giornalismo sportivo degli anni Quaranta e Cinquanta, probabilmente lo stadio più celebre al mondo: il Maracanã. Un luogo in cui si sono mescolate, e continueranno a farlo, passioni, lacrime, gioie di un popolo senza confini quando si trova al suo interno. L’abito più bello lo indossa quando c’è la partita, noi ci siamo accontentati del suo museo, degli spogliatoi e di tutti quei luoghi da feticisti che toccano il loro apice nel corridoio che porta al campo. Un posto anonimo che però stordisce il tifoso. Percorrerlo è come attraversare il sabato del villaggio, un’attesa che viene accompagnata dai cori dei torceador registrati e amplificati in loop da alcune casse appese alle pareti e che all’inizio assomigliano in tutto e per tutto al canto delle sirene.

Tutto e il contrario di tutto

Questa sensazione di stordimento però ci è capitata più volte nel corso dei pochi giorni trascorsi sotto il Redentore, non solo tra i cori immaginari e il profumo dell’erba tagliata di fresco del Maracanã. La testa gira anche quando sei in spiaggia, al ristorante o sotto la statua del Cristo e, sgomitando, guadagni la prima fila e guardi giù, uno dei panorami più belli che la Terra possa offrire. La testa gira. Per forza. Perché qui tutto è eccessivo, ridondante, barocco. Tutto e il contrario di tutto. E perciò avresti voglia di avere altri occhi, altri nasi e altre orecchie per curiosare ancora di più, e nello stesso momento, in questa vita così lontana dalla nostra.

Prendiamo la spiaggia, ad esempio. Non è una striscia di sabbia, più o meno profonda, come la intendiamo tra Adriatico, Tirreno e Ionio. A Rio, e soprattutto quella di Copacabana, è un luogo che si anima ben prima delle sette del mattino (calciatori, pallavolisti, runner) e non chiude mai la sera (innamorati, vitelloni, qualche improvvido turista). È un posto da vivere, in continuo movimento. Mica roba da lucertole immobili come da noi. Si viene per fare tutto e il suo contrario. Per fare attività fisica e al tempo stesso per abbuffarsi di biscotti Globo (dolci o salati), di formaggio infilzato sullo spiedino e cotto al momento o addirittura di carne alla griglia. Rigorosamente con servizio espresso sotto l’ombrellone.

Milioni di piedi

Si arriva per starci dieci minuti e bere solo una caipirinha con gli amici o per trascorrere la giornata intera, magari in compagnia di un’acqua di cocco e di un pallone da passarsi in gruppo per ore senza mai farlo cadere. Perché la spiaggia, anzi le spiagge, sono Rio. In qualunque periodo dell’anno. E sulla sabbia a grana grossa affondano milioni di piedi. Quelli dell’impiegato che lavora pigramente da anni nello stesso ufficio di cemento in avenida República do Chile, quelli della ragazza che poco o nulla ha a che fare con la celebre canzone dei sogni, quelli dell’urbanista che sogna San Paolo ma che progetta periferie anonime a ovest, quelli di Luís in una pausa del suo tira e molla tra cidade e aeroporto, quelli del venditore di birre a pochissimi centesimi, quelli di Diógenes e della sua collezione d’arte, quelli di quel giovane che è rimasto per ore disteso a pancia in giù, la faccia sulla sabbia, con un paio di jeans inzuppati di urina e una pesante camicia a scacchi addosso. In mezzo all’incurante folla carioca, a due metri dal nostro stupore, nel cuore del pomeriggio di un agosto invernale.

Massimiliano Cortivo

 

Cinque posti da vedere:

Il Corcovado
Il quartiere di Santa Teresa
Le spiagge di Ipanema e Copacabana
Lo stadio Maracanã
Il Pão de Acúcar

Cinque luoghi in cui mangiare:

Bar do Mineiro
Cervantes
Bar Urca
Assador
Miam Miam

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