Sarajevo, Gianni il professore delle lettere

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Sarajevo ha conosciuto anni di assedio, l’abbandono, l’ipocrisia della comunità internazionale. Con tutta la Bosnia Erzegovina ha attraversato anni di guerra, crudele e sanguinosa. La nazione porta ancora le ferite di quegli eventi drammatici, a Dayton nel 1995 si è solo bloccato lo scontro armato, non fu aperto un vero processo di riconciliazione e di pace.

Il 6 aprile a Sarajevo è stato ricordato l’inizio della guerra nel 1992. Quel giorno 11541 sedie rosse vuote sono state poste lungo Ulica Maršala Tito e si è reso omaggio alla memoria dei morti durante l’assedio, il più lungo del XX secolo, 1395 giorni. Tra queste 653 più piccole, quelle dei bambini…

Un’altro anniversario è trascorso a Sarajevo in questi giorni, quello della “Marcia dei Cinquecento per la pace” del dicembre 1992, quando il folto gruppo di pacifisti è riuscito ad entrare nella città assediata per fermare la guerra. Un momento durato poche ore, ma carico di emozioni e di aspettative.  Dove non era riuscita la comunità internazionale, i Beati Costruttori di Pace hanno aperto una breccia nel muro dell’indifferenza, hanno ridato un attimo di speranza ai cittadini rinchiusi nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Hanno portato luce nel buio della guerra tornata in Europa dopo quasi quarant’anni, sono entrati dove tutti cercavano di fuggire. La Marcia è stata un grande momento, ma non fu un’azione fine a se stessa, ebbe continuità per portare aiuto e sollievo ai cittadini assediati. Aiuti umanitari continuarono ad arrivare, qualcuno collegò radioamatori italiani con colleghi bosniaci per dare possibilità di parlare almeno via radio alle famiglie rimaste isolate.

Volontari rimasero a Sarajevo per coordinare le attività umanitarie, con grande partecipazione, sempre dalla parte di chi soffriva. Una delle esigenze degli assediati era comunicare con parenti e amici sparsi un po’ ovunque, talvolta profughi a loro volta, travolti dagli eventi bellici. La radio non bastava, i telefoni erano più il tempo che venivano isolati di quanto funzionassero: restava la posta. Come far passare alle lettere la linea del fronte, che tagliava in due la città? Talvolta si tentò con complicati giri internazionali, lunghi, difficili e poco sicuri. Si era infatti in presenza di una situazione paradossale. Per esempio, se si voleva mandare una lettera dal quartiere serbo di Grbavica ad un familiare rimasto al di là della Miliačka, il fiume che divide Sarajevo, magari a trecento metri dal fronte, come fare? La necessità aguzza sempre l’ingegno. Ai Beati Costruttori venne in mente di portare i plichi, che ricevevano presso la sede di Padova, provenienti da ogni parte del mondo e consegnarli nei quartieri di Sarajevo. Una lettera era così imbucata verso Belgrado, con cui i serbo bosniaci restarono sempre in relazione.

Da lì era inviata a Padova presso i Beati Costruttori di Pace, questi, mediante i voli umanitari, la portavano a Sarajevo e la consegnavano al destinatario. Un giro di mezza Europa per fare magari cinquecento metri in linea d’aria. Meccanismo che si perfezionò sempre più fino a diventare un legame insostituibile per la gente di Sarajevo. Con le lettere si potevano inviare le foto del figlio, del nipote, la ciocca di capelli di un’innamorata o inviare i soldi necessari per sopravvivere in una città in mano al mercato nero. E i soldi arrivano tutti e sempre e la gente prese sempre più fiducia. E le lettere aumentavano sempre più e con esse il lavoro di smistamento, di cernita, arrivano infatti lettere da ogni parte del mondo destinate alla Sarajevo isolata. Decine di persone a Padova, volontariamente, preparavano i plichi. Tra essi, un singolare personaggio, un insegnante di Verona di nome Giovanni, Gianni per gli amici.

Questo professore, usando i giorni liberi dall’insegnamento, passava per Padova, si caricava lo zaino di lettere e, prendendo giorni di ferie, andava all’aeroporto di Ancona Falconara da dove partivano i voli umanitari per Sarajevo. Lì giunto, Gianni consegnava le lettere ai volontari sul posto e ritornava con un carico di lettere in partenza, le risposte agli invii dall’estero. A Sarajevo in quei mesi scarseggiava tutto, dall’acqua al cibo, alla luce ai medicinali, ovviamente mancavano le buste. Partivano fogli piegati con l’indirizzo scritto sopra, alla buona. Impossibile spedirle nel sistema postale europeo. Che fare allora? Gianni, di ritorno con le preziose lettere, andava a scuola ai suoi studenti, li invitava a prendere dalla cattedra un centinaio di buste bianche e li pregava di trascrivere gli indirizzi segnati sui fogli che aveva portato. “Oggi niente lezione, si scrivono le lettere” era la parola d’ordine, cui seguiva un’ovazione, ma tutti si mettevano subito in azione e svolgevano velocemente… il compito.

Ancora oggi, dopo tanti anni, i suoi ex allievi, quando lo incontrano, ricordano quei giorni e confessano l’amore con cui hanno svolto il lavoro, utile e prezioso, ma un giorno uno più ardito gli confessò: “Lei era il nostro Professore di Lettere,  ma per noi è diventato il Professore DELLE lettere… e siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto assieme”.

Avranno anche perso qualche lezione di letteratura, forse avranno studiato un po’ meno bene Manzoni o fatto un tema in classe di meno per … mancanza di tempo, ma il… compito che hanno svolto non ha prezzo. E’ stato un grande lavoro umanitario, che ha portato sollievo e aiuto alle decine di migliaia tra i “prigionieri” di Sarajevo,

grazie a Gianni, il professore DELLE lettere, grazie ai suoi studenti, grazie a tutti i Costruttori di pace.

 

Bruno Maran

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