La natura? Ora la protegge lo sport: la sfida di The Outdoor Manifesto

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Noi esseri umani siamo parte della natura? Quando camminiamo in mezzo a un bosco, sui monti, ci sentiamo veramente parte di ciò che abbiamo intorno? Sviluppare una sensibilità profonda nei riguardi della natura potrebbe portarci a difenderla, a viverla appieno, a opporci a chi vuole sfruttarla come mera risorsa economica. E per farlo si passa (anche) attraverso le attività outdoor, che diventano un mezzo per farci capire la nostra appartenenza al mondo naturale. A concretizzare questa presa di coscienza collettiva c’è The Outdoor Manifesto, un gruppo di attivisti che contribuiscono a un vero e proprio cambiamento culturale “dal basso” del mondo outdoor, rimettendo al centro la natura. Per saperne di più abbiamo intervistato uno dei suoi fondatori: Luca Albrisi, snowboarder, regista di documentari e scrittore.

Come nasce The Outdoor Manifesto?

«L’idea di scrivere il manifesto è nata un paio d’anni fa, durante un evento: stavo portando in giro “The Clean Approach. Essere, Outdoor“, un mio documentario su come le attività all’aperto possano essere un mezzo di riavvicinamento alla percezione di noi stessi come parte della natura. Dopo una chiacchierata con alcuni ragazzi che condividevano le mie stesse idee, la mia stessa visione su un’approccio outdoor più sostenibile abbiamo capito che dovevamo fare uno step in più, passare al lato pratico e attivarci in modo vero e proprio. All’inizio eravamo in 12, tutti appassionati di attività all’aria aperta: chi come me sulla neve, chi con la bici o con la corsa in montagna. Da lì siamo partiti: abbiamo scritto il manifesto che raggruppa le nostre idee e le nostre filosofie, che abbiamo presentato durante diversi eventi in giro per l’Italia, alcuni organizzati da noi, altri ospitati da realtà sensibili al tema. Il manifesto vuole essere una cosa che parte dal basso: non è una raccolta firme, ma un grande gruppo di persone che diventano portatrici dei suoi principi, attivandosi. Nel sito infatti c’è il Journal, uno spazio dove chiunque può evidenziare problematiche del suo territorio, proporre visioni o spunti di riflessione».

© Alice Russolo

Quali sono i punti cardine del vostro manifesto?

«Uno dei punti cardine di The Outdoor Manifesto è la visione biocentrica del mondo: vedere sé stessi come elementi del mondo naturale, e non al di sopra di esso. L’altro concetto fondamentale è vivere lo sport e le attività outdoor non solo in funzione del superamento del limite, ma capendo il contesto naturale in cui si pratica l’attività, tutelando la libertà degli altri esseri viventi. E le attività all’aperto possono essere un fortissimo strumento attraverso cui capire la nostra appartenenza al mondo naturale».

Negli ultimi anni c’è stato un boom delle attività outdoor, è una notizia positiva?

«È una notizia sicuramente positiva, però c’è da dire una cosa: tra i molti “nuovi arrivati” in montagna spesso troviamo persone che abitano in città, e che non hanno ancora la sensibilità e la cultura per vivere questi luoghi. Ovviamente non è colpa loro, e andrebbero “istruiti”. Il fatto che quest’anno ci siano cento persone in più nel rifugio può essere un’occasione per insegnare non solo il rispetto della montagna, ma anche per far capire loro perché stanno così bene quando sono all’aperto. Ci sentiamo così bene perché siamo parte integrante della natura: noi umani non siamo fatti per vivere dentro quattro mura, e stare fuori al massimo per la passeggiata con il cane. Il contesto naturale in cui si praticano le attività outdoor spesso è più importante dell’attività stessa. Il processo culturale dev’essere quello di sviluppare una sensibilità che ci ponga all’interno della natura: una volta che l’avremo capito sarà per noi naturale combattere per difenderla».

Uno dei punti centrali del manifesto riguarda le infrastrutture di montagna.

«Spesso il costruire in montagna è definito “valorizzazione”. Anche nei luoghi ancora intatti a livello ambientale si pensa che costruire impianti, infrastrutture e rifugi nuovi sia l’unico modo per portare uno sviluppo ai territori: cosa che secondo me fa l’opposto. Il futuro del turismo non dovrebbe essere hardware, ma software: creare attività, costruire una cultura che tuteli al più possibile il patrimonio naturalistico. Porto un esempio del Trentino: ci sono le valli iper sviluppate, che negli anni ‘80 hanno visto un boom di costruzioni per il turismo, e altre lasciate relativamente al loro stato naturale. Ovviamente non è tutto bianco o tutto nero: gli impianti turistici danno da vivere a chi abita quelle località, e nelle valli con poche infrastrutture è oggettivamente difficile abitare. Servono dei processi partecipati con la popolazione, con gli operatori turistici e con gli enti territoriali, che guidino verso uno sviluppo diverso, più consapevole e “al passo” con la natura. Io ovviamente sono contrario alle nuove costruzioni, secondo me è giusto mantenere quello che già c’è, migliorarlo e ristrutturarlo nel momento in cui smette di funzionare. Sono contrario a chi vuole costruire troppo: la nuova frontiera del marketing impiantistico sono i mega collegamenti tra piste da sci, spesso spacciati come mobilità alternativa – elemento che gli dà un anche un tocco green, giusto per essere venduti meglio -. Sono infrastrutture enormi, costosissime, pagate con i soldi pubblici: non si reggono in piedi dal punto di vista economico, e vanno a distruggere i territori».

Che poi di neve in montagna ce n’è sempre meno…

«Io da snowboarder questa cosa l’ho notata tantissimo, è un problema che abbiamo tutti sotto agli occhi. Quando ero maestro full-time di snowboard iniziavo a insegnare a metà/fine novembre, adesso se abbiamo la neve a Natale siamo contenti. Andavo anche a insegnare sui ghiacciai tra Francia e Italia, dove facevo quasi tre mesi di stagione estiva: oggi sono diminuiti tantissimo, e ogni tanto mi chiedo se ha ancora senso farli soffrire ancora sciandoci sopra d’estate. Evidentemente qualcuno non lo capisce: se vai a vedere i nuovi progetti degli impianti, molti di questi sono a bassa quota. E in quel momento entri in un circolo vizioso: costruisci nuovi impianti, allora devi realizzare il sistema di innevamento artificiale, quindi devi realizzare i bacini idrici, acqua che viene tolta agli abitanti delle valli. Ed è un problema che si ripercuote su diverse realtà territoriali: nella valle in cui abito io, oltre al turismo di neve c’è anche turismo di fiume: se tutta l’acqua che arriva dai ghiacciai la convogli nei bacini idrici, non ne rimane più per chi vuole portare i turisti in giro con il kayak. La soluzione ovviamente non c’è, ma sarebbe saggio anche solo fermarsi e capire la situazione, prendendo consapevolezza dei problemi».

The Outdoor Manifesto

© Luca Albrisi

E gli abitanti di questi territori, che cosa ne pensano?

«Tra gli abitanti c’è una spaccatura: c’è chi la pensa come me – in gran parte giovani – che vogliono guidare le realtà territoriali verso un cambiamento. Ci sono altre persone, purtroppo, che questi problemi non li vedono, e con cui è anche difficile intavolare una conversazione. Tematiche green come queste solo tre anni fa erano ancora considerate cose “da hippy”: oggi siamo davanti a un’evidenza scientifica di questi problemi, come fai a non prenderne atto? Affrontare i cambiamenti è una delle cose più difficili nella vita, a livello personale, lavorativo e ancor di più a livello sistemico. Non sono di certo qui a giudicare chi fa fatica ad affrontare un processo del genere, molto spesso è più facile negare l’evidenza, andare avanti con le proprie convinzioni e pensare di essere nel giusto».

Esiste qualche esempio da seguire, qualche “best practice” turistica?

«Fino a qualche mese fa avrei citato la Valpelline, in Val d’Aosta. Territorio che per un motivo o per l’altro non è stata segnato dalle grandi infrastrutture, come è successo nella vicina Cervinia. C’è questa associazione chiamata Naturavalp, che organizzava attività outdoor “lente”, aveva detto no a mezzi a motore sulla neve e si opponeva alla costruzione di impianti. Purtroppo negli ultimi mesi hanno subito fortissime pressioni, e anche lì sta arrivando il solito modello turistico. Problema che vediamo anche in altre località in giro per il mondo, nonostante l’importante ondata green dell’ultimo anno, che ha reso tutti un po’ più consapevoli».

© Pietro Toffanelli

A proposito di ambiente: leggo sul manifesto che vi opponete al greenwashing, la tecnica di marketing che sfrutta dinamiche ecologiste con il solo obiettivo di vendere di più

«Il picco del greenwashing l’abbiamo avuto con il Corriere della Sera, quando è letteralmente diventato verde per la giornata mondiale dell’ambiente. L’iniziativa è stata sponsorizzata da una nota azienda petrolifera (con tanto di doppio logo in prima pagina) per il lancio della sua linea di energia “pulita”. È greenwashing puro: credo che sia talmente evidente che devi avere veramente una faccia tosta per proporre una cosa del genere, è come il diavolo che ti vende l’acqua santa. Negli ultimi tempi, anche grazie al movimento Fridays for Future, l’ecologismo è diventato un tema sempre più importante: molte aziende purtroppo stanno cavalcando quest’onda, basando il proprio marketing sulle tematiche green, senza però condividerne i principi. Prima c’erano 4-5 aziende genuinamente attente all’ambiente: ora ce ne sono a migliaia, e distinguere quelle che ci credono veramente da quelle che lo fanno solo per scopo di lucro è sempre più difficile. Sarebbe importante avere anche un organo ufficiale che vigili su queste cose: per un’azienda non ci vuole nulla a scrivere “prodotto sostenibile”».

Un consiglio a una persona che vuole “attivarsi” su queste tematiche?

«Per attivarsi il primo passo è aumentare la propria empatia verso l’ambiente naturale. Per farlo un buon inizio può essere leggere libri e documentari, facilmente recuperabili su internet. A un certo punto non basterà più pensare e riflettere, ma bisognerà iniziare ad agire. A livello personale si può agire con i piccoli cambiamenti quotidiani, cercando di portare la nostra vita ad abitudini più sostenibili. Ovviamente la perfezione non esiste, dipende dalle condizioni di vita in cui uno abita, ma adattare la propria vita dal punto di vista della sostenibilità è sicuramente una bella sfida, che dà anche tanta soddisfazione. A livello personale abbiamo anche un grande potere, quello del portafoglio: dobbiamo iniziare a premiare le aziende più sostenibili. Il problema è sempre quello di riuscire a distinguere quali aziende sono veramente sostenibili, e quali lo fanno solo per “moda”. Una volta fatte queste piccole azioni possiamo iniziare a metterci in gioco, passando dall’impegno singolo a una dimensione di gruppo, condividendo le nostre abilità e le nostre conoscenze con le molte associazioni ambientaliste o culturali. Da quando abbiamo fondato The Outdoor Manifesto ho notato quanto sia importante l’aiuto delle persone. Non soltanto l’aiuto “fisico” nell’organizzazione di un evento, ma anche a livello digitale, una traduzione di un testo, l’editing di una foto. Oggi non è facile fare attivismo, abbiamo poco tempo libero, meno possibilità economiche rispetto a una generazione fa. Ma è una battaglia necessaria, perché ne va del futuro di ognuno di noi».

Giacomo Porra

The Outdoor Manifesto

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