Tollerare è sorridere, sorridere è tollerare

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“Questa mattina Iqbal mi ha chiesto se conoscevo la differenza tra il tollerante e il razzista. Gli ho risposto che il razzista è in contrasto con gli altri perché non li crede al suo livello, mentre il tollerante tratta gli altri con rispetto. A quel punto si è avvicinato a me, per non farsi sentire da nessuno come se stesse per svelare un segreto, e mi ha sussurrato: <<Il razzista non sorride!>>.

Ho pensato tutto il giorno al razzista che rifiuta di sorridere e mi sono reso conto che Iqbal ha fatto un’importante scoperta. Il problema del razzista non è con gli altri ma con sé stesso. Direi di più: non sorride al prossimo perché non sa sorridere a sé stesso. È proprio giusto quel proverbio arabo che dice: “Chi non ha non dà”.

Questo brano è tratto da uno spassosissimo romanzo del tunisino Amara Lakhous, “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” (edizioni e/o, 2006). Dallo stesso romanzo, nel 2010, Isotta Toso ci ha tratto un film commedia non particolarmente riuscito dal punto di vista cinematografico.

Ambientato in uno dei quartieri più multiculturali d’Italia, quello di Lakhous è un thriller divertente che racconta, attraverso gli occhi dei tanti protagonisti che abitano un condominio multietnico, la storia di un omicidio senza colpevole.  Ognuno tira fuori i suoi stereotipi, le sue paure, le sue ansie esistenziali.

Ma, tornando al brano, è proprio vero che tollerare è sorridere e sorridere è tollerare? È un interrogativo che guida anche alcune delle più famose ricerche psico-sociologiche, quale il classico studio sulla “Personalità autoritaria”, condotto negli anni ’40 da Adorno e dalla sua équipe. Attraverso questionari e scale di personalità, i ricercatori americani giunsero a dimostrare che esisteva un nesso fra tratti della personalità e atteggiamenti, sia totalitaristici che, conseguentemente, discriminatori. Chi sa stare con gli altri, quindi, li sa tollerare.

Nelle parole di Iqbal, però, c’è qualcosa di più. C’è cioè l’idea, o il presupposto, che se non si è sicuri di sé stessi, non si riesce ad accettare neanche gli altri. Questo vale tanto per l’Io individuale, che per le identità collettive. Come spiega Kapuscinski, ne L’altro (2009), riprendendo un insegnamento di Erodoto,  solo chi ha chiara  la propria identità e il suo valore può liberamente confrontarsi con una cultura diversa, in caso contrario tenderà ad isolarsi e a sentirsi minacciato. È un assunto, o se vogliamo un truismo, che nelle aule universitarie e nelle arene politiche non manchiamo di menzionare, ma che raramente perseguiamo fino in fondo.

Davanti al palesarsi di atteggiamenti razzisti, o più ampiamente intolleranti, quindi, piuttosto che limitarci a stigmatizzare la persona o il gruppo che li sostengono, dovremmo chiederci: cosa rende insicura o infelice quella persona? Quale risentimento cova alla base della sua identità e si trasforma in tali odiose espressioni di xenofobia?

E se, davvero, tollerare è sorridere e sorridere è tollerare, come insegna anche Anthony Giddens, dovremmo iniziare a costruire la tolleranza e la democrazia, nelle quali crediamo, sin dalle nostre relazioni più intime, giorno per giorno, nell’ascolto attivo dell’altro e nell’accettazione della sua differenza. Ed essere consapevoli, fino in fondo, che ogni azione produce un significato e che ognuno recepisce i significati in maniera differente. La tolleranza, infatti, è, prima di tutto, consapevolezza dei malintesi tipici della comunicazione fra diversi.

Vincenzo Romania

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