Venezia73, il Leone a Lav Diaz che fa arrabbiare i conformisti

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La retorica del “polpettone” di 4 ore, del film filippino (orrore!), e per giunta (vade retro!) in bianco e nero. Senza star degne di nota (sugli schermi occidentali), manco fosse una iattura. Leggendo certi titoli dei giornali italiani di domenica 11 settembre 2016, il giorno dopo la premiazione dei Leoni alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, sembrava quasi che (una parte della) categoria dei giornalisti di spettacoli fosse caduta in una profonda depressione.

Il vertice lo raggiungeva Repubblica, che in prima pagina riusciva a titolare: «Vince il film filippino di 226 minuti in bianco e nero. Emma Stone miglior attrice in La la land». Ovvero, come riuscire a non citare né il titolo del film né il nome del regista insignito del massimo premio. Il giorno prima, al film che avrebbe finto quel quotidiano riservava uno striminzito riquadro di quindici righe. Necessità di impaginazione, o reazione automatica nel nome di un malinteso imperativo dell'”essere popolari” a tutti i costi? Un automatismo che sa tanto di conformismo. (Fra le chicche, c’è poi la lunga intervista de La Stampa a Enrico Vanzinamaître à penser del cinema italiano che boccia le “scelte elitarie” della giuria, senza ovviamente aver visto nemmeno un film).

La colpa di tanta indignazione? Tutta di Lav Diaz, il regista filippino (nella foto) che si è aggiudicato il – meritatissimo, a parere di chi scrive – Leone d’Oro a #Venezia73, con quello che è stato probabilmente l’unico film in concorso a mostrare un’idea forte di cinema: The Woman Who Left (La donna che partì, titolo originale Ang Babaeng Humayo). Un film capace di tenerti sulla poltrona per 4 ore, sì, ma senza mai sfociare nell’intellettualismo fine a se stesso, né in un innamoramento un po’ “ombelicale” per l’estetica, come ad esempio – sempre secondo chi scrive – ha fatto Spira Mirabilis, lungo documentario dei peraltro molto bravi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.

Il pubblico, nella proiezione a cui ho avuto il piacere di assistere in Sala Grande, apprezzava: non è uscito quasi nessuno durante la visione – se non qualcuno per giustificatissime necessità fisiologiche. Il punto è che The Woman Who Left è un racconto intenso, che lentamente ti fa immergere, attraverso la guida di una donna segnata dalla vita e da 30 anni di carcere (ingiusto), interpretata da Charo Santos-Concio, in quello che è il panorama sociale di un Paese a noi quasi sconosciuto, le Filippine: senza retorica, ma senza sconti, si vedono gli slum ai margini della città, l’umanità umile ma anche divertente dei venditori ambulanti, un omosessuale rifiutato dalla famiglia e dalla società che non rinuncia a vivere la propria identità, i ricchissimi potenti del paese che ne dominano la vita come sovrani di qualche secolo fa, trovando nella Chiesa una sponda, un confessionale, un teatro sociale dove mettere in mostra il proprio potere. Sullo sfondo, ci racconta la radio, c’è la stagione dei sequestri dei ricchi imprenditori cino-filippini, attorno al 1997.

E nelle ultime scene, quando la macchina da presa, seguendo Santos-Concio, dalla cittadina di provincia raggiunge la capitale Manila, la finzione si tramuta quasi in documentario, e le immagini notturne riprendono i raccoglitori di spazzatura, i mendicanti sul sagrato delle cattedrali barocche eredità della colonizzazione spagnola. Un passato coloniale che ancora pesa fortissimo: «Questa è la storia delle Filippine dove l’imposizione della cristianità e della colpa collettiva è stata sempre lo strumento con cui impedire alle persone di pensare, di porsi delle domande. Entrambi sono concetti astratti però garantiscono il ruolo della chiesa, il suo controllo sociale – ha detto il regista Lav Diaz al manifesto –. Il più grande problema nel mio Paese è l’ignoranza, è un muro che è impossibile distruggere».

Forse il problema non è la durata, né il bianco e nero, ma il fatto che esista – e venga premiato dalla giuria presieduta da Sam Mendes, preferendolo a titoli hollywodiani come Nocturnal Animals, patinatissimo ma anemico – chi pratica un cinema che sappia aprire finestre sul mondo, raccontare squarci di vita quotidiana, speranze e dolori non solo di chi vive negli attici, ma anche quelle di chi abita gli slum. Aria fresca, di questi tempi, specie in Italia, e specie a Nord Est. Dove difficilmente The Woman Who Left sarà distribuito su larga scala: il consiglio è di andare a vederlo, o almeno di provarci (tenendo duro la prima ora).

Giulio Todescan

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