Vipiteno, quando la piccola patria del ricordo diventa storia

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«L’ombra di mio padre due volte la mia / Lui camminava ed io correvo/ Sopra il sentiero di aghi di pino/ La montagna era verde/ Oltre quel monte il confine/ Oltre il confine chissà/ Oltre quel monte la casa di Hilde». Sarà per via dell’aspetto familiare, o per gli aghi di pino, o ancora a causa del monte e del confine, lì a due passi. Sta di fatto che sfogliando e annusando il volume «Vipitenesi – Storia di una comunità dalle origini al dopoguerra» (297 pagine, Edizioni Artestampa) ci è subito venuta in mente una vecchia canzone di Francesco De Gregori. Che con Vipiteno non c’entra nulla – in quel caso semmai siamo dalle parti di Padola, ai piedi delle Dolomiti di Sesto – ma che riporta con la stessa, lucida precisione il fascino di storie in bianco e nero tra paure, fatiche e sollievi. Storie rimaste intatte, come conservate sotto metri di neve, e pronte a sbocciare nuovamente pagina dopo pagina o nota dopo nota. E l’essenza del volume curato da Caterina Fantoni, un’emigrante al contrario, passata da Vipiteno a Modena dove insegna alla scuola primaria, sta proprio nel calore di queste narrazioni personali, anche se la sua originalità, forse, è rappresentata dalla mescolanza di queste ultime con le relative immagini e brevi paragrafi di Storia, quella con la esse maiuscola, quella di tutti.

Il risultato è un’opera corale che va al di là dell’appartenenza territoriale e di interessi particolari del lettore (di fatto il libro racconta in che modo si sia sviluppata la comunità italiana vipitenese dagli anni Venti ai primi Sessanta). Perché, una volta terminato il volume si ha più la sensazione di aver visto un film, un’universale serie Netflix, più che aver letto un libro di storia locale. Potenza delle immagini, certo, ma crediamo anche delle facce e dei racconti dei protagonisti, di chi quella storia l’ha vissuta – in prima persona o di rilfesso – e ora la fissa per sempre in cartoline di memoria. Così, lette le trecento pagine di «Vipitenesi», oltre ad aver indubbiamente appreso una microstoria che fino ad ora ignoravamo, la mente si trova soprattutto immersa tra le vicende personali di famiglie sconosciute e ora quasi diventate familiari.

Gli Alberti, gli Anedo, gli Anversa e giù giù in ordine alfabetico fino ai Todesco, alle sorelle Ugolini, ai Zanarotto. E i nomi portano con sé squarci di vite vissute (sezione «Testimonianze») che alla fine sono sempre la colla a caldo della storia. Per qualcuno di loro non basta una pagina a descrivere il passato, per altri sono sufficienti poche righe. Poco più di una, ad essere precisi, per Graziella Ugolini nata a Vipiteno nel 1942, uno dei tanti protagonisti del volume: «Andavamo a scuola mattina e pomeriggio e poi finché c’era luce andavamo a slittare giù dal Löwenegg». Fine del ricordo. Un flashback che nella sua brevità colpisce e trasmette tutta la potenza dell’infanzia senza tempo («Il est midi tous les quarts d’heure/ Il est jeudi tous les matins» cantava Brel, sempre a proposito di canzoni) fatta di scuola e di gioco, e probabilmente di mani gelate, di cappelli di lana grossa e di risate. Ad accompagnare questa sorta di dorfbuchin italiano (una rarità in Alto Adige) ci sono poi le immagini, altre finestre che si spalancano sui decenni passati.

E qui spuntano camicie a scacchi, tavolate imbandite, partite di pallone, corse in bicicletta, spericolate discese di bob, centraliniste della Telve alle prese con le telefonate interurbane e una mega fonduta presumibilmente di formaggio allestita in mezzo a un prato che la curatrice del volume ha scelto come copertina. Sullo sfondo, il Novecento. In questo caso un secolo ancor più breve di quello raccontato da Hobsbawm. Ma dilatato all’infinito dalla potenza dei ricordi. Che sono personali, che in fondo appartengono a ognuno di noi.

Massimiliano Cortivo

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